Come parlare al pubblico: la lezione di Vera Gheno

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Un’ospite davvero speciale, che ci ha portato a esplorare tematiche diverse dalle solite, anche se solidamente concrete e impattanti sulle strategie digitali. Abbiamo avuto l’onore di avere Vera Gheno come speaker del webinar “Come parlare al tuo pubblico“, in cui la nota sociolinguista, punto di riferimento in Italia per tutto quello che riguarda il tema del linguaggio e non solo, ci ha spinti a varie riflessioni sulle parole. Non si tratta delle classiche e “banali” keyword a cui pensiamo per i nostri siti, ma a qualcosa di più profondo, perché il linguaggio che utilizziamo online e offline ci identifica e ciò vale per tutti – brand, freelance e chiunque si impegni per costruire dialoghi con la propria community. Abbiamo quindi intervistato Vera Gheno per approfondire questi concetti e trovare degli spunti utili da applicare anche nelle nostre operazioni quotidiane!

Come parlare al pubblico: la nostra intervista a Vera Gheno

Linguaggio performativo, rigidità linguistica, autenticità sui social e utilizzo accorto degli strumenti di Intelligenza Artificiale per scrivere testi, ma anche e soprattutto i modi e i motivi per cui le parole possono contribuire a definire la nostra immagine online. Anzi, per riprendere un passaggio della chiacchierata, di come la scelta e la formulazione di ogni espressione che utilizziamo abbia il potere di costruire oppure di distruggere realtà, contesti e relazioni.

Quanta cura dedichi alla scelta delle parole?
Rivivi il webinar di Vera Gheno per riflettere sul potere delle parole e sugli effetti del linguaggio che usi per te e il tuo brand, online e offline
Webinar

Con la sua esperienza e competenza, in questi anni, Vera Gheno è diventata un punto di riferimento nel campo del linguaggio, online e offline. Divulgatrice instancabile – collabora con importanti testate giornalistiche, gestisce una seguitissima pagina Facebook dedicata alla lingua italiana e tiene corsi e webinar sulla comunicazione efficace – Vera analizza i modi in cui usiamo le parole, svelandoci i meccanismi (a volte subdoli) che si nascondono dietro un post o un commento.

Soprattutto, ci insegna a non dare mai per scontato il potere delle parole e ci invita a sviluppare una maggior consapevolezza degli effetti del linguaggio, per scegliere i termini giusto nel contesto giusto.

Vera Gheno ci parla di linguaggio e comunicazione

Quello che emerge dalla nostra intervista è proprio questo: la cura e l’accuratezza nel linguaggio sono strumenti di grande potenza, specialmente nel mondo digitale, e quindi è fondamentale prestare la massima attenzione nella selezione delle parole che utilizziamo per rappresentare i nostri brand e progetti.

  1. Quali sono le caratteristiche chiave di un linguaggio che permette a brand e freelance di dialogare in modo autentico e rispettoso con la propria community?

Spesso, nella comunicazione si pone molta enfasi sull’aspetto estetico e sul cosiddetto “tone of voice” di un’azienda o di una persona, per costruire un branding riconoscibile, sia a livello personale che aziendale. Tuttavia, ciò che ho notato nel corso degli anni è che si presta meno attenzione alla parte strettamente linguistica, non solo in termini di performance, ma soprattutto di comprensibilità e relazionalità. Si tende a concentrarsi su aspetti superficiali, come la ripetizione di parole chiave per migliorare il posizionamento sui motori di ricerca, senza interrogarsi su aspetti più importanti della comunicazione, come la cooperazione. È fondamentale non solo ingaggiare chi ci legge, ma anche coinvolgerlo in una conversazione, un dialogo o un’interazione attiva. Spesso si dimentica l’importanza della conoscenza della lingua, inclusi grammatica, ortografia e sintassi. Sorprende quanti errori si trovano, anche in brevi testi pubblicitari, con accenti sbagliati o apostrofi fuori posto, persino in grandi aziende nazionali. Pertanto, se avete dimenticato la grammatica, è utile ripassarla.

Un altro aspetto cruciale è l’attenzione a tre elementi fondamentali della comunicazione: l’intento (cosa voglio comunicare), il pubblico (a chi mi rivolgo) e il contesto in cui opero. Essendo naturalmente programmati per comunicare dal vivo, ogni forma di comunicazione mediata, come quella digitale o stampata, riduce la gamma di canali comunicativi disponibili. È importante essere il più chiari possibile, usare l’ironia e le figure retoriche con cautela, tenendo conto che alcune persone neurotipiche potrebbero non riconoscerle. Bisogna sempre chiedersi chi sono, cosa voglio comunicare, a chi e in quale contesto.

  1. Come possiamo sviluppare una maggiore consapevolezza linguistica quando comunichiamo online, in modo da essere più efficaci, senza cadere in forme di auto-censura o rigidità espressiva?

Da un lato, c’è sicuramente una certa pigrizia, nel senso che il “si è sempre fatto così” offre alle persone un rifugio sicuro. Se qualcosa funziona da anni o decenni, perché cambiare? Tuttavia, il mondo, le persone e la società cambiano, e bisogna adattarsi a questi mutamenti. Ad esempio, uno dei maggiori cambiamenti riguarda il concetto di “normale” e “diverso”. Viviamo in società normocentriche, dove esistono ancora forti stereotipi sull’utente o cliente modello, come la famosa “user persona” o “buyer persona“. Tuttavia, oggi capiamo che essere diversi non significa essere peggiori. Accettare la diversità significa considerare le molteplici sensibilità che in passato potevamo ignorare.

Ad esempio, una grande azienda che opera a livello internazionale deve tenere conto del fatto che non tutta la popolazione è omogeneamente cristiana-cattolica. Inviare biglietti di auguri di Natale potrebbe non essere adatto per chi non lo celebra; sarebbe meglio usare espressioni come “buone feste”. Questo non significa censurarsi, ma piuttosto evitare di urtare inutilmente la sensibilità altrui. Esiste, però, il rischio di un eccesso di zelo: eliminare tutto per paura di offendere porta alla superficialità, che è un grande problema. Ad esempio, sostituire il “Buon Natale” con “Buone Feste” è comprensibile, ma non lo è inventare collegamenti inesistenti, come quello tra la parola “denigrare” e un termine offensivo, quando in realtà il verbo deriva dal latino e non ha nulla a che fare con la questione razziale.

Questa degenerazione, che non chiamerei “wokismo”, ma eccesso di zelo, può essere superata solo con lo studio. Un altro aspetto che critico è l’uso eccessivo dei “trigger warning”. È giusto evitare di essere continuamente provocati, ma non possiamo vivere in un mondo dove nulla ci provoca mai disagio. Personalmente, non mi turbano sangue, ferite o insetti, ma non riesco a guardare film di guerra perché mi colpiscono troppo. Tuttavia, non pretendo che si smettano di fare film di guerra solo perché a me danno fastidio. Bisogna distinguere tra ciò che richiede una protesta pubblica e ciò che è una sensibilità personale.

Un altro problema della comunicazione odierna è il cosiddetto “collasso del contesto”, dove messaggi che funzionano in un contesto ristretto vengono diffusi in contesti più ampi, creando fraintendimenti. Un esempio recente è l’uscita infelice di Papa Francesco sulla “frociaggine” nei seminari. Questa frase, detta in un contesto chiuso e professionale come la conferenza episcopale italiana, è stata male interpretata perché estrapolata dal suo contesto. Valutare il contesto è fondamentale, ma in un mondo iperconnesso, questo non è sempre facile.

Infine, il maschile sovrasteso, per me, non è particolarmente fastidioso, soprattutto se si presta attenzione ai punti chiave di un discorso, come l’inizio e la fine. Ho notato che alcune persone alternano il maschile con il femminile, e questa pratica può abituare all’idea che il maschile sovrasteso è una convenzione che può essere cambiata.

  1. Hai scritto molto sull’intersezione tra linguaggio e privilegio sociale. Potresti approfondire come le scelte linguistiche rafforzino le dinamiche di potere nella società e come il linguaggio inclusivo possa contribuire a smantellare queste strutture?

Nel campo della comunicazione e della lingua, che è strettamente legato alla società, il privilegio spesso significa non dover pensare a certi problemi, non solo non affrontarli, ma nemmeno considerarli. Ad esempio, se io posso camminare senza difficoltà, non mi rendo conto dei limiti fisici che una persona in sedia a rotelle o con stampelle potrebbe affrontare in città, come a Firenze. Per me, una macchina parcheggiata sullo scivolo è solo un ostacolo aggirabile, ma per qualcuno su una sedia a rotelle, diventa un problema insormontabile. Il privilegio è non dover pensare a questi “gradini”, sia in senso proprio che metaforico.

Michela Murgia, nel suo libro Stai Zitta, spiega bene che il privilegio non è una colpa, ma una responsabilità. Se ti accorgi che esistono questi ostacoli e non fai nulla per cambiarli, allora diventa una responsabilità negativa. Ad esempio, il privilegio di essere bianca ti fa notare che le persone con pelle più scura ricevono un trattamento diverso negli aeroporti. Oppure, il “thin privilege” ti permette di essere trattata meglio in una società ossessionata dall’aspetto fisico. Anche essere uomo è un privilegio, con conseguenze pratiche, come il fatto che i trial medici si fanno principalmente su corpi maschili, perché il corpo femminile è considerato più complesso per via delle fluttuazioni ormonali.

Un esempio che ci ha coinvolto tutte è stato il vaccino anti-Covid. Dopo essermi vaccinata con AstraZeneca, il mio ciclo mestruale è andato fuori controllo, ma sul foglietto illustrativo non si parlava di effetti sul ciclo mestruale. Solo due anni dopo è stato pubblicato uno studio che dimostrava questa correlazione. Questo è un esempio di come i trial medici vengano condotti principalmente su corpi maschili, ignorando gli effetti specifici sulle donne.

Non è una colpa maschile che i trial medici o i crash test dummies siano stati per lungo tempo basati su corpi maschili, ma ora che siamo consapevoli di queste iniquità, abbiamo la responsabilità di non contribuire a peggiorarle. Come dice Ursula K. Le Guin, una volta che ti viene fatto notare un’ingiustizia, hai la responsabilità di agire affinché non peggiori.

  1. La comunicazione sui social può spesso diventare ostile, soprattutto a causa dell’anonimato e della velocità di diffusione dei contenuti. Quali strategie linguistiche consigli di adottare per rispondere in modo costruttivo e arginare la diffusione dell’odio, senza rinunciare alla propria identità comunicativa?

Ho una serie di risposte, dalla più filosofica alla più pratica. Partiamo da quella filosofica: se una persona si diverte a diffondere insulti sui social, io mi immagino che vita triste debba avere. Personalmente, anche quando sono arrabbiata, stanca o depressa, non sento il bisogno di andare online a insultare qualcuno, anche se non sono d’accordo. Non mi dà soddisfazione. Quindi, primo consiglio: pensa che quella persona sta peggio di te.

Poi, sulla gestione pratica: avendo gestito per sette anni il profilo Twitter dell’Accademia della Crusca, ho imparato che è importante restare nel merito della discussione. Quando qualcuno ti provoca o ti insulta, cerca di riportare la discussione sul tema, ignorando l’aggressività. Questo spesso disinnesca la tensione. Un approccio gandhiano, insomma. Tuttavia, quando il pubblico cresce, come è successo a me negli ultimi anni, anche il numero di persone problematiche aumenta. E, sinceramente, la vita è troppo breve per occuparsi dei disagi altrui, a meno che non sia per lavoro. Per questo, blocco chi mi attacca senza motivo. Non perché mi senta superiore, ma perché non ho bisogno di accollarmi i loro problemi.

In ambito aziendale, è grave non gestire una crisi, ma quando qualcuno arriva a caso a insultare, bloccarli è legittimo. La comunicazione è un privilegio e, se non sei capace di interagire rispettosamente, non meriti quel privilegio. Se tutti facessimo così, forse potremmo iniziare a creare una sorta di “ecologia digitale”. Ad esempio, l’altro giorno ho condiviso un post di Isa Borrelli, attivista per i diritti delle persone trans, e qualcuno ha commentato dicendo che si era fermato a leggere al primo asterisco. Io ho risposto invitandolo a leggere prima di commentare. Alla fine, ha ammesso di aver letto tutto, ma ha continuato a chiedere meno “aggressività” da parte mia, solo perché gli avevo fatto notare un errore. Ho chiuso i commenti per evitare ulteriori inutili discussioni.

In situazioni del genere, la soluzione è smettere di cercare di cambiare idea agli altri e concentrarsi sul risparmio di energie. La comunicazione è cooperazione, e non puoi accollarti tutto il peso della conversazione se l’altro non partecipa. È come quel meme che paragona il giocare a scacchi con un piccione: ti farà cadere i pezzi e sporcherà tutto. Meglio non insistere. Non è compito di nessuno convertire gli altri; se qualcuno è interessato alle tue idee, bene, altrimenti non devi “suonare il campanello” di tutti. Come mi ha detto una volta una mia amica, “Non sei tu che hai messo i chiodi a Cristo”. Non dobbiamo sentirci responsabili di convincere chiunque; dobbiamo condividere le nostre idee con chi è disposto a discuterle, partendo da una base comune.

  1. Ti capita mai di pensare che nel tempo, anche il linguaggio si sia sempre di più orientato alla “performance” svuotandosi del valore etico e di contenuto? Penso a tormentoni come “escilo”, “bravah” (che tra l’altro è associato a un fatto di cronaca molto triste di revenge porn).

Frequentando le comunità virtuali e i social da circa 30 anni, posso dirti che l’uso dell’H finale per dare enfasi alle parole esisteva già prima del caso Cantone. L’ho visto usare nei primi anni 2000 e persino nella seconda metà degli anni ’90. È vero che quel caso l’ha reso celebre, ma è una pratica antecedente. Questo dimostra che, quando si usano certi stilemi, bisogna fare attenzione, ma non sempre il loro uso è legato a episodi specifici.

Passando oltre, perché non dovremmo essere performativi a livello linguistico? In fondo, è ciò che viene insegnato a scuola. Come sottolinea Tullio De Mauro nel documento “Le dieci tesi per l’educazione linguistica democratica” del 1975, gran parte dell’insegnamento scolastico della lingua si concentra sulla performance: ortografia, grammatica, analisi grammaticale e logica. Tuttavia, raramente ci si sofferma sulla capacità argomentativa e sulla costruzione di un ragionamento complesso. Non sorprende che molti studenti, quando arrivano all’università, fatichino a scrivere testi articolati, perché non hanno mai veramente imparato a farlo.

Non mi stupisce, quindi, se la tendenza alla performance linguistica è diffusa, spesso con l’uso di “buzzwords” come resilienza, intersezionalità, inclusione. Parole che, a forza di essere usate, creano un senso di nausea in chi lavora nella comunicazione. Per esempio, intersezionalità è spesso usata impropriamente, quando in realtà significa semplicemente riconoscere che una persona può essere discriminata per molteplici ragioni. Tuttavia, l’uso di buzzwords o l’inglese per apparire più sofisticati è tipico, come quando si sente dire: “La reason why di questo project richiede che la user persona abbia soft skills”. Molte di queste frasi potrebbero essere benissimo espresse in italiano.

Non sono contraria all’uso dell’inglese, ma è importante chiedersi: è necessario? Lo pronuncio correttamente? Lo so scrivere bene? Spesso, l’uso di termini inglesi serve solo a innalzare, in modo artificiale, il tono del discorso, il che rivela una sensazione di inferiorità culturale o una scarsa conoscenza dell’inglese. Questo attribuisce all’inglese una valenza quasi mistica. Il Ministero del Made in Italy è un esempio di questo fenomeno. Riconoscere questa dinamica sarebbe già un passo avanti, perché capire i meccanismi linguistici è molto più importante che concentrarsi solo su grammatica, sintassi o analisi logica.

  1. In SEOZoom abbiamo appena pubblicato AI Assistant che – tra le varie cose – aiuterà a capire se nel testo ci sono bias discriminatori. Pensi che l’AI in questo possa essere un valido aiuto?

Non riesco a entusiasmarmi troppo per certi argomenti, come ad esempio la friggitrice ad aria, che alla fine è solo un forno ventilato con un nuovo nome. Non mi appassiona il rebranding, così come non mi appassiona particolarmente la televisione. Ho un atteggiamento simile anche verso l’uso dell’intelligenza artificiale applicata alla lingua. A me piace lavorare con le parole, ed è un lavoro che non mi va di condividere, nemmeno con l’IA. Detto questo, l’IA è uno strumento, e come ogni strumento può essere usato in modo positivo o negativo. Ad esempio, potrebbe automatizzare quei comunicati stampa ripetitivi e banali, eliminando espressioni scontate come “nella splendida cornice di…” e lasciando a noi più tempo per testi creativi.

Ho però dei dubbi sull’IA come guida, perché simula comportamenti euristici basandosi su ciò che ha imparato. Quindi, il successo dipende molto da come è stata addestrata e su quali testi si è esercitata. L’IA potrebbe essere utile per segnalare criticità, come un uso squilibrato di genere nei testi o termini impropri, ma non dobbiamo affidarle tutto il lavoro. L’intelligenza umana, con la sua imprevedibilità, rimane superiore.

Un esempio pratico: mi capita di trovare tesi scritte con l’IA, e spesso l’IA inventa di sana pianta fonti bibliografiche, con autori inesistenti. Questo è un grosso rischio se chi utilizza l’IA non è in grado di verificare l’accuratezza del risultato. Tuttavia, se sai come controllare l’output, può essere uno strumento utile. Io stessa uso Google Translate per tradurre dall’inglese, ma posso correggere gli errori perché conosco la lingua abbastanza bene.

Bisogna essere cauti: l’IA può fare errori gravi, come nel caso di un’app grafica (forse Stable Diffusion o DALL·E) a cui era stato chiesto di disegnare soldati del Terzo Reich e aveva incluso soldati neri, donne e asiatici, completamente fuori contesto. Questo ci fa sorridere perché riconosciamo l’assurdità, ma se non fossimo in grado di farlo, sarebbe un problema serio, come in un libro di storia illustrato con errori simili.

Un esempio virtuoso invece è l’uso dell’IA per migliorare il linguaggio inclusivo. Per esempio, quando ho difficoltà a trovare un oggetto neutro per una newsletter, chiedo a ChatGPT di suggerirmi versioni più inclusive. Non sempre accetto le sue soluzioni, ma è uno spunto utile. Tuttavia, come hai detto anche tu, l’IA deve essere usata come strumento di supporto e non come unica fonte, perché affidarsi ciecamente potrebbe portare a situazioni assurde.

  1. Pensi che sia più difficile far accettare l’evoluzione della lingua adesso che 50 anni fa?

Penso che sia sempre stato difficile ascoltare gli esperti, c’è sempre stato scetticismo verso i “professoroni” o gli intellettuali. In passato, però, i complottisti si limitavano a esprimere le loro opinioni al bar, mentre oggi hanno la possibilità di creare siti complottisti, antivax, o che si rifanno a teorie assurde come il piano Kalergi. Quello che è cambiato è che, con la diffusione di internet, queste persone possono connettersi facilmente tra loro, rafforzandosi a vicenda. Questo crea quelle che Walter Quattrociocchi e il suo gruppo di ricerca chiamano “eco-chamber”, ossia camere di risonanza dove le opinioni, anche le più strampalate, trovano conferme continue. In queste camere di risonanza, anche idee assurde come la Terra piatta trovano sostenitori, e le persone si convincono sempre di più di avere ragione.

Non credo che il numero di “sedicenti esperti” sia aumentato, sono sempre esistiti. Ci sono sempre stati cittadini che si proclamano esperti di costituzione, linguisti o qualsiasi altra materia. Quello che è cambiato è la visibilità che questi individui hanno acquisito grazie alla rete. Questo può disturbare il lavoro di chi cerca di fare divulgazione seria, ma la soluzione non è sperare che scompaiano. Come diceva Socrate, “sapere di non sapere” è alla base della conoscenza, ma esiste il cosiddetto “effetto Dunning-Kruger”, secondo cui chi sa poco tende a sopravvalutare le proprie competenze. Questi personaggi ci saranno sempre.

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Ascolta le riflessioni di Vera Gheno su linguaggio e comunicazione

Quello che possiamo fare è dare alle persone strumenti epistemici migliori, come rafforzare le competenze linguistiche e spiegare la complessità, in modo che siano meno suscettibili a cadere in trappole di comunicazione superficiale. Il problema è che oggi c’è una tendenza alla semplificazione estrema delle risposte, e molte persone cercano solo di aumentare l’engagement piuttosto che diffondere conoscenza autentica.

Per esempio, sono stata attaccata sui social perché non parlavo abbastanza di Palestina. Ho spiegato che non ne so abbastanza per fare advocacy, preferisco condividere testi di persone più competenti. Una volta qualcuno mi ha detto di “studiare” per imparare a parlare di Palestina, come se fosse possibile acquisire in un mese una competenza che richiede anni di studio. Questo atteggiamento riflette una tendenza pericolosa: l’idea che il sapere possa essere “consumato” velocemente e restituito altrettanto rapidamente, come in un fast food della conoscenza.

Di fronte a questi comportamenti, la soluzione è sviluppare una sorta di “anticorpi” sociali: chiedersi se è possibile che una persona parli con sicurezza di qualsiasi cosa, dall’inflazione all’Ucraina, dai vaccini alla Palestina, sempre con lo stesso atteggiamento apodittico. Il problema non è aspettarsi che questi “tuttologi” scompaiano, ma piuttosto sperare che le persone inizino a considerarli sempre meno credibili.

  1. Puoi consigliare delle risorse per revisionare i testi in modo inclusivo?

Esistono molte guide su questi argomenti, e un testo che mi è piaciuto particolarmente è Scrivi e lascia vivere. È molto utile per chi lavora con i testi. Inoltre, Isa Borrelli è bravissima nel sensitivity reading, cioè nel rileggere testi per assicurarsi che siano rispettosi e inclusivi. Isa può offrire consigli pratici e aiutare a strutturare un vero e proprio flusso di lavoro. In generale, consiglio di non lasciarsi prendere dalla velocità della comunicazione digitale: è importante prendersi il tempo per rileggere e comprendere i testi, anche se spesso si tende a correre.

Una delle problematiche della nostra società è il giudicare troppo le persone in base agli errori ortografici, anche se in realtà l’ortografia è una convenzione. Ciò che conta davvero è la capacità argomentativa di una persona, non se sa scrivere correttamente “qual è” con o senza apostrofo. Ci sono molte guide sul linguaggio inclusivo; ad esempio, Manuela Manera ne ha condivisa una di recente, e la Fondazione Diversity ha pubblicato delle linee guida per promuovere una cultura antidiscriminatoria. Personalmente, ho scritto una guida sul genere, ma è un documento interno di un ONG, quindi non pubblico.

Alla fine, il miglior modo per evitare errori è studiare. Studiare sempre.

Per quanto riguarda il futuro della lingua italiana, dipende molto da dove andrà la società. La lingua segue la società, quindi se ci avviamo verso una distopia, in cui chi ha privilegi li sfrutta a scapito degli altri, la lingua rifletterà questo. D’altra parte, se ci muoviamo verso l’utopia della “convivenza delle differenze”, come suggerisce Fabrizio Acanfora, la lingua potrà evolvere in modo positivo. La “convivenza delle differenze” implica che ci sediamo tutti attorno a un tavolo per decidere insieme le strade da seguire, senza che uno includa l’altro in modo passivo, privandolo di agency.

Il rischio della distopia è che chi sta relativamente bene preferisca mantenere lo status quo piuttosto che cambiare i propri paradigmi. Libri come Il mondo al contrario di Vannacci funzionano proprio perché deresponsabilizzano: ti dicono che non è colpa tua, ma degli altri. Se accettiamo questa narrazione, non cambiamo nulla. Invece, io preferisco seguire il pensiero di Gramsci: non stare alla finestra, ma partecipare attivamente per costruire un futuro migliore.

Il linguaggio plasma il presente e, di conseguenza, anche il futuro, quindi abbiamo una grande responsabilità verso la società che verrà.

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