Cercare scorciatoie e soluzioni più rapide per raggiungere un obiettivo, anche in maniera spregiudicata, è forse una caratteristica naturale dell’essere umano, e il campo della SEO non fa eccezione. Accanto alle pratiche regolari e ufficiali, che rispettano cioè i limiti segnati dalle Linee Guida di Google, si sono sviluppate tantissime tecniche dai contorni sfumati o apertamente in violazione delle norme, che si definiscono Black hat SEO.
Con questa espressione si raggruppano una serie di tecniche e tattiche altamente manipolative che sfruttano determinate caratteristiche degli algoritmi dei motori di ricerca per cercare di forzare la mano al ranking di un sito, spingendolo in alto nelle SERP di Google. Nel tempo, il motore di ricerca è diventato bravo a identificare e penalizzare tali tecniche dal cappello nero e mette in campo una serie di strumenti per battere questa piaga, e quando scopre questi tentativi manipolativi penalizza il sito e le sue pagine, ma ciò non impedisce comunque alle persone di provarle, pur esponendosi al rischio di una penalità algoritmica o manuale.
Perché si chiama black hat SEO?
Dal punto di vista grammaticale, l’espressione black hat SEO rimanda al simbolismo usato nel cinema western americano tra gli anni ’20 e ’40 del Novecento in bianco e nero: come si legge su Wikipedia, black hat (cappello nero) era il simbolo dei cattivi, distinti in questo modo dai buoni che invece indossavano un cappello bianco (white hat). E quindi, laBlack Hat SEO prende il nome dai vecchi film di cowboy in cui i cattivi indossano un cappello nero ed effettivamente chi esegue tali tecniche rischia di finire – a volte anche inconsapevolmente – nell’elenco dei cattivi secondo Google.
Che cos’è la black hat SEO e cosa significa
Oggi con la formula black hat SEO si fa riferimento a un insieme di pratiche e tecniche utilizzate per aumentare il posizionamento di un sito o di una pagina nei motori di ricerca attraverso mezzi che violano i termini di servizio di Google e degli altri search engine, e che di conseguenza espongono il sito a penalizzazioni o a ban dai motori di ricerca, primaria fonte di traffico sul Web.
Per continuare a essere il motore di ricerca più popolare al mondo e fornire agli utenti i risultati più utili, Google deve aggiornare continuamente il suo algoritmo e cercare di limitare la presenza di risultati poco pertinenti o apertamente spam. Le regole del gioco – per così dire – sono fissate dalle varie linee guida che sono aperte a tutti, dagli sviluppatori web ai professionisti SEO.
Ciò nonostante, ci sono molte persone che vogliono vincere la partita aggirando le regole e mettono quindi in campo tecniche illecite: i professionisti della Black Hat SEO conoscono cioè le regole dell’ottimizzazione dei motori di ricerca, ma usano questa comprensione per prendere scorciatoie che non sono esattamente previste nelle best practices di Google.
Questa modalità è in contrapposizione ai professionisti white hat SEO, che per vincere nella SERP invece seguono le linee guida per i webmaster di Google, promuovono contenuti di alto valore, si impegnano in approfondite ricerche di parole chiave e così via.
Black Hat SEO vs White Hat SEO
Restando in campo cinematografico, per chi ha visto la saga di Star Wars la citazione viene facilmente in mente: come nel film esiste un lato chiaro della Forza rappresentato dai Jedi e un lato scuro della Forza incarnato dai malvagi Sith, così nel mondo della SEO troviamo la white hat SEO (quella che raccontiamo dalle pagine del nostro blog e che mettiamo in atto con la nostra Web Agency Seo Cube) e, in contrapposizione, l’insieme delle tattiche black hat SEO.
Black Hat SEO e spamdexing
In alcuni casi, per identificare queste azioni manipolative si usa anche il termine spamdexing (da spam + indexing), che fa riferimento preciso alle tecniche che hanno come fine ultimo l’acquisizione di visibilità nei motori di ricerca attraverso metodi e tattiche ritenute illecite o comunque apertamente in contrasto con i termini d’uso dei motori di ricerca.
Come riconoscere le tecniche illecite
C’è una domanda che può far capire immediatamente se una tecnica SEO può essere o meno considerata da cappello nero: “Il lavoro che sto facendo aggiunge valore all’utente o sto solo facendo questo per i motori di ricerca?”. Ovvero, le tecniche di ottimizzazione che sto attuando sono pensate solo per aumentare il ranking delle pagine e del sito, oppure sto fornendo benefici anche agli utenti, semplificando l’user experience e fornendo contenuti utili?
Le tattiche black hat sono tipicamente usate da SEO specialist, consulenti o webmaster che cercano un veloce ritorno economico sui siti propri o dei clienti, anziché attendere i risultati di una strategia di medio-lungo termine e di investimenti più ampi.
Gli esempi di black hat SEO
Le principali tecniche di black hat SEO sono una decina, e comprendono l’uso di testo nascosto, l’acquisto di link spudorati, lo sviluppo di pagine differenti per utenti e motori di ricerca, ma anche tecniche più banali come il keyword stuffing (di cui abbiamo parlato varie volte negli approfondimenti sui contenuti di qualità e sul SEO copywriting) o i commenti sui blog. Molte di queste pratiche sconsigliate le abbiamo già incontrate nella guida ai fattori di ranking su Google, nella sezione dedicata ai fattori di spam e penalizzazione, ma comunque è bene dedicare qualche parola in più sull’argomento.
Le principali tecniche black hat sconsigliate da Google
Se l’abuso di parole chiave ripetute nel testo, nei title e nelle description è una tecnica facilmente rilevabile da Google e di scarsa efficacia, le altre tattiche dal cappello nero fanno riferimento a interventi più tecnici.
È il caso del cloaking (mostrare al visitatore una pagina web standard e presentare una diversa e più ottimizzata ai crawler dei motori di ricerca) o del boilerplate (insieme di link inseriti nel layout di tutte le pagine web per spingere un numero limitato di pagine), che comunque non sono più molto frequenti. Ci sono poi i metodi della negative SEO, che consiste nel segnalare a Google un presunto comportamento illecito di un competitor per sfavorirlo.
Riconoscere le tattiche vietate
Altri esempi di tattiche black hat sono quelli della creazione di contenuti duplicati o article spinning, varianti della stessa pagina web che dovrebbero consentire di “giocarsi più carte” con Google, o la strategia del desert scraping, l’acquisto di domini scaduti. Comprando domini scaduti e non rinnovati (ed eseguendo dei redirect 301 sui link in entrata) si cerca di trasferire il potere dei backlink precedenti al proprio progetto, ma anche in questo caso Google diventa sempre più abile a scovare chi utilizza questi mezzi, senza contare che a volte si rischia di acquistare un sito già penalizzato da Google o con un profilo backlink di scarsissima qualità.
La link building e la SEO black hat
Un capitolo a parte bisogna dedicarlo alla link building: come sappiamo, la strategia di acquisizioni link rischia di sfociare in modalità sgradite a Google, che ha previsto una serie di regole da rispettare contro la manipolazione del ranking. In questo elenco rientrano l’acquisto di link a pagamento, l’acquisto di link su siti specializzati nella vendita di link e creati solo per questo (senza offrire contenuti di qualità agli utenti), lo scambio link o la creazione di schemi di link.
In linea di massima, una campagna di acquisizione link può non essere considerata black hat SEO se riesce a tener fede ai principi di Google sul purpose per gli utenti e sui siti su cui i contenuti sono pubblicati (in topic, con link che fornisce indicazioni utili e così via). Un giusto compromesso potrebbe essere il link baiting, che consiste nella scrittura di contenuti interessanti da proporre a un sito, con link in uscita verso il proprio progetto che diventa la fonte dell’informazione.
I rischi delle tattiche di black hat SEO
Finora abbiamo solo fatto accenno ai pericoli della black hat SEO, ma proviamo a descrivere quali possono essere le conseguenze dell’utilizzo di queste strategie vietate: se all’inizio le pratiche manipolative possono apparire efficaci nell’immediato, succede di frequente che questi risultati siano temporanei ed effimeri, perché i motori di ricerca prendono conseguenze dirette (ne abbiamo raccontato a proposito dell’esperimento SEO americano di qualche tempo fa).
Quando rileva tecniche disapprovate, Google reagisce in maniera molto concreta e inflessibile e può penalizzare il sito a livello di posizione in SERP o, nei casi peggiori, eliminare il dominio dal suo Indice. Il caso di studio più famoso è avvenuto nel 2006, quando il sito ufficiale di BMW Germania fu bannato da Google perché usava doorway pages per migliorare il suo ranking (e poi riammesso dopo le scuse ufficiali della compagnia tedesca).
La Gray Hat SEO, il compromesso tra black hat SEO e white hat SEO
Possiamo dedicare un passaggio anche a quella che viene definita gray hat SEO, ovvero l’insieme di tecniche che non appartengono a nessuna delle due categorie classiche del bianco o del nero, ma che si muovono in un ambito indefinito, al confine tra ciò che è consentito e ciò che invece è manipolativo.
Il nome ovviamente fa riferimento alle caratteristiche cromatiche del grigio, che nasce proprio dalla fusione di bianco e nero, e quindi la gray hat SEO combina strategie lecite e altre meno lecite, poco convenzionali ma non estreme come quelle descritte. Anche in questo caso, comunque, Google lavora per ridurre gli effetti positivi di tali operazioni, e i continui aggiornamenti dell’algoritmo costringono sempre a far evolvere la strategia di base per rispondere alle novità.
17 tecniche di Black hat SEO da conoscere ed evitare
È importante però premettere che non sempre queste tattiche vietate vengono eseguite in maniera volontaria, quindi è bene familiarizzare con la SEO black hat per essere sicuri di procedere solo con strategie lecite. Pertanto, andiamo a vedere 17 note e diffuse pratiche black hat da evitare perché possono provocare una penalizzazione algoritmica o manuale di Google, seguendo i suggerimenti di Jon Clark su Search Engine Land.
Le tecniche illecite relative ai link
Per il loro peso e valore, i link sono probabilmente il primo elemento su cui si concentra l’attenzione di chi intende forzare le classifiche di Google, portando all’adozione di una serie di comportamenti vietati.
- Acquisto di link
Un link pertinente e di alta qualità può indirizzare il traffico verso un dominio e allo stesso tempo dire all’algoritmo di Google che rappresenta una fonte affidabile.
Un buon backlink può anche aiutare Google a mappare un sito, così da permettere al crawler di avere un’idea migliore dell’argomento centrale del progetto, rendendo più facile decidere quando e come mostrare le pagine nei risultati di ricerca.
L’acquisto di un link, tuttavia, è contro le Istruzioni per i webmaster di Google e, secondo Google, non funziona; inoltre, chi viene beccato può subire una penalizzazione o un’azione manuale che colpisce pagine specifiche o, peggio, l’intero sito.
Google tiene traccia dei link che “è probabile siano stati acquistati e di quelli che sono stati guadagnati” ed è capace di identificare pattern innaturali dietro ai backlink, anche per le stesse proprietà di Google.
- Scambio di prodotti per link
Sia che il sito stia offrendo o prendendo, lo scambio di prodotti gratuiti (o sconti) per i link è considerato da Google uno schema di link, un link scheme.
Per evitare questo problema, basta marcare il link con un tag rel = “nofollow”, per segnalare ai motori di ricerca di non seguire il collegamento ai fini del ranking.
- Link nel footer
Il footer è stato spesso usato come luogo prediletto per l’inserimento di un link, perché viene visualizzato su ogni pagina di un sito. Google è però capace di identificare (e penalizzare) l’utilizzo di link nei footer con anchor text commerciale su larga scala per manipolare i risultati.
- Link nascosti
È una tecnica un po’ vecchiotta, ma che a volte capita ancora di trovare: nascondere un link nel testo del sito o di mostrare il link dello stesso colore dello sfondo. Superfluo dire che Google può notare questi espedienti e penalizzerà chi ha tentato di giocare con il sistema; inoltre, includere un numero alto di link irrilevanti significa anche diluire la pertinenza e offrire a Google “meno motivi per indirizzare il traffico al tuo pubblico di destinazione”.
I link ingannevolmente nascosti sono una violazione delle linee guida di Google, e ciò significa:
- Non nascondere testo dietro un’immagine.
- Non tenere il testo fuori dallo schermo utilizzando CSS.
- Non usare una dimensione del carattere pari a 0.
- Non rendere un collegamento una piccola stringa di caratteri, come un periodo.
- Spam nei commenti
Altra tecnica abusata in passato è inserire un link verso un sito nella sezione commenti di un altro dominio: oggi i sistemi automatici spesso bloccano il tentativo, ma ad ogni modo è meglio “evitare di farlo a meno che il link non sia rilevante”, utile e in topic – e comunque non dovrebbe generare effetti in termini di link building. In caso contrario, si rischia una penalizzazione per spam.
- Anchor text abusato
Apparentemente ha senso “abbinare il titolo della tua pagina ogni volta che condividi un link ad essa, perché il titolo è l’argomento della tua pagina e la coerenza potrebbe implicare la pertinenza”, ma dal punto di vista di Google questo rischia di rivelarsi come un pigro spamming.
Al contrario, l’anchor text dovrebbe essere breve, pertinente alla pagina collegata, non pieno di parole chiave e unico, oltre che inserito nel contesto dell’ambiente circostante, di cui è una parte naturale.
Questa regola vale sia per i link interni che per quelli esterni.
- Backlink dannosi
L’attenzione che Google riserva ai link può essere usata anche a fini malevoli: “alcuni professionisti black hat SEO possono sfruttare nel loro interesse il sistema di penalizzazioni di Google per trascinare in basso il tuo page rank, inserendo link in siti Web a cui non vorresti essere associato”, dice Clark.
È per questo motivo che, da una decina di anni ormai, Google ha creato il sistema di disavow links, che permette appunto di rinnegare i backlink ricevuti da eventuali domini indesiderati e di dissociare il proprio sito da quello ritenuto sospetto o nocivo.
- Uso di PBN
Le reti PBN – Private Blog Network – sono essenzialmente siti Web che si linkano tra loro; molto diffusi negli anni ’90 e nei primi anni 2000 (“in particolare tra le pagine dei fan di diversi programmi televisivi, film, musicisti eccetera”), non sono necessariamente una cosa negativa, ma queste catene sono considerate uno schema di link quando sono usate per manipolare gli algoritmi e le classifiche.
Le tecniche black hat legate al contenuto
Alcune tattiche da cappello nero si concentrano invece sui contenuti e cercano di sfruttare alcune pieghe del sistema di valutazione di Google per velocizzare la scalata alla prima pagina.
- Keyword stuffing
È (purtroppo!) una brutta abitudine che continua a essere presente: infarcire il testo di ripetizioni della parola chiave per cui si cerca di posizionare la pagina, creando l’effetto del keyword stuffing che è fastidioso anche per la lettura.
Inoltre, parte da due assunti sbagliati, ovvero che bisogna costruire una pagina/testo intorno a una parola chiave (mentre invece bisogna centrare il search intent) e che basta ripetere le keyword in blocco per classificarsi al primo posto.
In realtà, Google premia chi fornisce informazioni di alta qualità e “contenuti ricchi di parole chiave legate semanticamente”, anziché quelli che “ne recano semplicemente i segni superficiali”.
- Keyword stuffing nell’alt-text delle immagini
Anche l’abuso di keyword nei tag alt di un’immagine può danneggiare il posizionamento del sito, oltre a rappresentare un uso improprio di questo elemento e a fornire sostanzialmente un disservizio ai visitatori.
- Contenuto nascosto
Come per i link nascosti, anche il contenuto nascosto ha lo stesso colore dello sfondo per “includere il maggior numero possibile di frasi chiave, parole chiave a coda lunga e parole collegate semanticamente in una pagina”.
Ovviamente, l’algoritmo di Google può rilevare la differenza tra le parole chiave all’interno del corpo di un paragrafo e le parole chiave nascoste sullo sfondo.
Oltre a essere inseriti intenzionalmente dal proprietario del sito, i contenuti nascosti possono anche dipendere da altre situazioni:
- Pubblicazione di un guest post che include contenuti nascosti.
- Sistema di commenti non essere sufficientemente rigoroso e quindi non capace di rilevare i contenuti nascosti.
- Sito web violato da hacker che pubblicano contenuti nascosti (parasite hosting).
- Inserimento accidentale di un utente autorizzato, che copia e incolla del testo con lo stile CSS da una fonte diversa.
Non tutti i contenuti nascosti sono vietati – la regola pratica è che “il contenuto va bene fintanto che il contenuto è visibile sia all’utente che al motore di ricerca” – e ad esempio può essere ritenuto lecito “il contenuto visibile solo ai visitatori mobile, ma nascosto ai visitatori desktop”.
- Contenuti plagiati o duplicati
I contenuti duplicati – o frutto di scraping o vero e proprio plagio – possono violare le leggi sul copyright o sui brand; inoltre, visto che “Google desidera condividere domini di alta qualità, il plagio è motivo di sanzione”.
- Spinning di articoli
L’article spinning è una tecnica che implica la riscrittura del contenuto utilizzando i sinonimi, cambiando la struttura della frase o riscrivendo il testo interamente ma senza cambiare le informazioni del materiale di origine.
Lo spinning di articoli può essere eseguito manualmente o utilizzando la tecnologia e, per quanto possa essere avanzata, Google continuerà a penalizzare i siti che usano questa tecnica, perché tali articoli “degradano la qualità di Internet”.
- Rich Snippet Spam
I rich snippet sono snippet con ulteriori informazioni, che quindi possono indirizzare più traffico, ma ci sono molti modi in cui lo schema utilizzato per generare questi frammenti può essere manipolato.
- Cloaking
Il cloaking è un vecchio trucco da black hat che è ancora utilizzato oggi: impiega una pagina flash o animata per nascondere ai visitatori le informazioni, che solo Google può vedere nell’HTML.
Se Google nota questa tattica punirà il sito con una penalità.
- Pagine doorway
Le pagine doorway sono una forma di occultamento, progettate per classificarsi per determinate parole chiave ma poi reindirizzare i visitatori ad altre pagine.
Sono note anche con altri nomi, quali Bridge pages, Portal pages, Jump pages, Gateway pages, Entry pages.
- Sito web compromesso
Avere un sito non protetto non è un fattore penalizzante di per sé, ma può provocare danni in caso di attacchi hacker e di violazioni, portando alla perdita del ranking.
Se il sito subisce un attacco o una iniezione di codice dannoso e Google lo scopre, può bloccare il dominio per le persone che utilizzano il motore di ricerca: ciò “non solo ti farà perdere la fiducia di chiunque visiti il sito dalla ricerca organica, ma farà sì che il sito web scenda nelle classifiche”, proprio come se fosse stato colpito da una penalizzazione.
Black hat SEO, tecniche destinate a durare poco
Le ricompense del percorso black hat sono in genere di breve durata e “sono anche immorali perché peggiorano Internet”.
È comunque importante avere consapevolezza che, accanto alle tattiche da white hat e lecite, esistono anche delle tattiche da cappello nero che sono sbagliate e pericolose, da cui sarebbe meglio stare alla larga.
Senza dimenticare che, in caso di penalizzazioni accidentali o di decisione di modificare le brutte pratiche, ci sono modi per recuperare dalle sanzioni di Google e rialzare le classifiche di un sito.