Abuso della reputazione del sito: la norma antispam di Google

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È l’ultimo capitolo della lotta di Google contro lo spam e i tentativi di manipolare le SERP con pratiche abusive e manipolative. Il site reputation abuse, in italiano “abuso della reputazione del sito”, è la policy con cui il motore di ricerca sta cercando di contenere pratiche note come parasite SEO, grazie a cui contenuti esterni ospitati su siti autorevoli sfruttano la loro reputazione consolidata per guadagnare posizioni nelle SERP senza offrire reale valore agli utenti. Cerchiamo quindi di capire cosa sta succedendo, perché Google ha deciso di intervenire così rapidamente e quali siti sono stati colpiti. Ma, soprattutto, proveremo ad analizzare se il vero obiettivo di Google sia correggere “solo” le dinamiche che hanno provocato un generale squilibrio nella distribuzione del traffico o se, invece, l’intervento non sia una sorta di “pezza temporanea” su un problema più ampio: quello della “fiducia cieca” riposta nei grandi brand che sta congelando le possibilità di crescita per i piccoli publisher, come dimostrato anche dalle nostre precedenti analisi.

Che cos’è il site reputation abuse, l’abuso della reputazione del sito di Google

Il site reputation abuse, tradotto ufficialmente in italiano come abuso della reputazione del sito, è una pratica attraverso cui un sito usa la propria autorevolezza agli occhi di Google per pubblicare pagine di terze parti, con lo scopo principale di manipolare i risultati di ricerca.

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Questi contenuti esterni – come pagine sponsorizzate, pubblicitarie o correlate a partner – sono generalmente scollegate dal core business del sito ospitante e offrono scarso valore agli utenti, ma grazie alla credibilità conquistata dal dominio riescono comunque a posizionarsi meglio nelle SERP.

Una stretta contro la parasite SEO

Con l’introduzione della normativa sull’abuso della reputazione del sito Google ha deciso di affrontare direttamente pratiche conosciute nel mondo SEO come parasite SEO, che consiste nella pubblicazione di contenuti non pertinenti su siti autorevoli, con il solo scopo di migliorare il posizionamento nei risultati di ricerca.

Pratiche del genere includono casi in cui un sito medico ospita recensioni su casinò online, o un portale di notizie che dedica ampie sezioni a codici sconto e affiliazioni non legate al nucleo tematico della testata.

Il meccanismo sfrutta il ranking power del sito ospitante per “trainare” contenuti che, altrimenti, faticherebbero a guadagnare visibilità in settori saturi. Senza fornire contenuti originali o realmente utili agli utenti, questi contenuti finiscono per violare lo spirito e l’equilibrio delle SERP.

Per contrastare questa pratica, a maggio 2024 Google ha adottato questa serie di norme specifiche per limitare gli approcci manipolativi, e in seguito a ulteriori valutazioni ha sentito la necessità di rafforzare le regole nel novembre 2024, chiarendo che nessun livello di supervisione da parte del sito principale può essere usato per legittimare contenuti di terzi che non rispettino la pertinenza tematica del dominio. Con questa mossa, Google ha ridotto ulteriormente gli spazi grigi, assicurandosi che i brand consolidati non possano abusare del proprio potere per manipolare i risultati di ricerca.

Tuttavia, esperti come Barry Schwartz hanno segnalato una criticità nella definizione stessa del concetto di parasite SEO: la distinzione tra contenuto abusivo e contenuto legittimo supervisionato è a volte tenue, e la community SEO ha evidenziato limitazioni e ambiguità che potrebbero portare alla penalizzazione di collaborazioni oneste ma gestite esternamente. Nonostante questo, Google ha voluto agire per contrastare abusi diffusi dell’affidabilità del brand nel sistema di ranking.

Che cosa prevede la norma contro l’abuso della reputazione del sito

Annunciate nell’aggiornamento antispam di marzo 2024 e ufficialmente partite nel maggio successivo, la policy sul site reputation abuse rappresenta un’importante componente delle regole antispam adottate dal motore di ricerca per migliorare la qualità dei risultati. Questa norma mira specificamente a contrastare la manipolazione delle SERP attraverso l’uso di contenuti di terze parti , spesso pubblicati con scarso o nullo controllo editoriale da parte del dominio principale. L’obiettivo di Google è garantire che i grandi brand non abusino della propria autorevolezza , sfruttandola per posizionare contenuti non pertinenti al proprio core business, senza offrire un valore reale agli utenti.

Google monitora attentamente questi comportamenti e individua violazioni in base a criteri ben precisi. Prima di tutto, si concentra sulla presenza di contenuti esterni come pagine sponsorizzate, pubblicitarie o legate ad affiliazioni che non hanno alcuna correlazione con il contesto generale e tematico del dominio ospitante. L’algoritmo di Google riesce a identificare queste sezioni di siti che utilizzano il proprio nome per promuovere contenuti commerciali, mirati esclusivamente a manipolare il posizionamento sui motori di ricerca.

Un altro aspetto che Google valuta è il livello di coinvolgimento del sito ospitante nel processo editoriale. Quando un dominio conosciuto offre in affitto parte del proprio spazio a fornitori terzi, come accade nei cosiddetti accordi white-label , senza controllare effettivamente la qualità e la pertinenza dei contenuti, si esclude dalla policy di Google il reale coinvolgimento editoriale. L’abuso diventa evidente quando la gestione è completamente esternalizzata, lasciando pochi margini di controllo all’editore principale del sito. Infine, viene attentamente valutata anche la qualità del contenuto : se questo risulta essere ripetitivo, manipolato con parole chiave forzate solo per guadagnare ranking, il sito rischia sanzioni, nonostante l’apparente legittimità della sezione in questione.

I siti più a rischio di penalizzazione sono quelli che utilizzano le proprie sezioni editoriali per ospitare contenuti che violano il core business del dominio. Quando Google identifica una violazione delle regole sul site reputation abuse, la piattaforma applica sanzioni diverse a seconda della gravità del caso. Le azioni manuali avvengono quando un team di revisori umani segnala un abuso e avvisano il sito attraverso la Search Console, notificando chiaramente in quale parte specifica del sito sono avvenuti gli abusi. Spesso, Google limita la penalizzazione alle sezioni incriminate, vale a dire sottodomini o directory interne, che possono vedere una drastica riduzione del ranking o addirittura essere escluse dall’indicizzazione. Nei casi in cui non intervenga un controllo manuale, ci pensano gli aggiornamenti algoritmici : il motore di ricerca ha già introdotto delle regole volte a ridurre automaticamente la visibilità dei contenuti che violano le policy, declassificando i siti che fanno abuso della reputazione in modo sistematico.

Per i siti che desiderano recuperare dalla penalizzazione, la procedura prevede la rimozione o deindicizzazione dei contenuti problematici. Solo successivamente il proprietario del dominio può richiedere una rivisitazione manuale tramite la Search Console. Tuttavia, pur in caso di successo della richiesta, il recupero del ranking originario potrebbe richiedere tempo, poiché Google deve reindicizzare correttamente tutti i contenuti del sito, processare le modifiche e rimuovere le pagine penalizzate dalla sua cache.

L’azione di Google per migliorare la qualità dei risultati

Il site reputation abuse rappresenta quindi una chiara violazione delle politiche antispam del motore di ricerca e una risposta al peggioramento della qualità dei risultati, notato ormai da tempo.

Uno dei problemi più frequenti che Google ha riscontrato è la soddisfazione degli utenti: le persone, vedendo un sito riconosciuto nelle prime posizioni di Google, cliccano presupponendo che il contenuto rispetti standard elevati, ma finiscono per leggere pagine che non rispondono ai loro intenti di ricerca. Questi comportamenti non solo minano la fiducia che l’utente ripone nei risultati di ricerca di Google, ma ridimensionano l’efficacia di tutto il sistema di ranking.

Il site reputation abuse, di fatto, rappresenta un’estensione naturale delle politiche antispam che Google aveva già avviato con l’introduzione dell’Helpful Content System a fine 2022, in cui la qualità e l’utilità dei contenuti erano diventate centrali nelle valutazioni algoritmiche. A maggio 2024, Google ha avviato un’azione più specifica sul site reputation abuse, rafforzando le sue linee guida in modo da bloccare i contenuti esterni poco pertinenti o ospitati senza rigorosi controlli editoriali , per tutelare la qualità delle SERP e migliorare l’esperienza di ricerca complessiva.

Google ha voluto porre un freno all’utilizzo di contenuti di terze parti per manipolare il posizionamento, sfruttando l’autorevolezza preesistente del dominio che li ospita. Questi contenuti esterni possono prendere la forma di pagine sponsorizzate o pubblicitarie, articoli di affiliazione o schede che nulla hanno a che fare con il core business del sito.

Ad esempio, mentre un sito di medicina trova coerenza nella pubblicazione di articoli medici, ospitare recensioni sui casinò o sui prestiti rapidi ne compromette la credibilità, oltre a sfruttare ingiustamente la fiducia che Google accorda a quel dominio. Allo stesso modo, siti di informazione generalista che ospitano sezioni per coupon o codici sconto gestite da fornitori esterni (white-label) utilizzano la fiducia derivante dal loro nome per distorcere la percezione dell’utente e scalare in modo ingiusto i risultati di ricerca per termini rilevanti.

Un ulteriore giro di vite per correggere una regola troppo aperta

Quando la nuova policy contro il site reputation abuse è stata introdotta a maggio 2024, alcuni esperti del settore SEO l’hanno giudicata troppo vaga. La regola originale prevedeva che i contenuti di terze parti pubblicati su siti consolidati fossero tollerati se supervisionati o prodotti in collaborazione con il sito principale, creando però una zona grigia che permetteva a certi contenuti di violare lo spirito della norma pur rispettandone formalmente i limiti.

Alla luce di tali problematiche, a novembre 2024 Google ha aggiornato la policy, chiarendo che nessuna supervisione del sito host può giustificare la pubblicazione di contenuti che non siano direttamente correlati al core business del dominio. Questo aggiornamento mira a colpire i casi in cui collaborazioni o accordi di white-label continuavano a sfruttare il brand per migliorare la visibilità in termini di ranking, senza offrire valore aggiunto né seguire una linea tematica coerente.

Le nuove linee guida ora permettono a Google di intervenire in modo più incisivo anche in situazioni precedentemente accettate, come quelle relative ai contenuti affiliate o pubblicità nativa, laddove non siano rispettate regole strettamente legate all’intento del sito. Questo aggiornamento è parte di un processo più ampio di rafforzamento delle politiche antispam , che mira a salvaguardare il motore di ricerca da tentativi sempre più sofisticati di manipolare il ranking senza offrire un’effettiva utilità all’utente finale.

I chiarimenti di Google: che cos’è un abuso della reputazione del sito e quali casi non sono in violazione

È la stessa documentazione ufficiale di Google a chiarire meglio quali sono gli ambiti di applicazione di questa serie di norme, con uno specchietto che mette in evidenza quali sono esempi di pratiche che violano la policy contro l’abuso della reputazione del sito e quali sono invece le situazioni ammesse.

Sono ritenuti abusi – e quindi puniti – i seguenti esempi (che sono solo una parte dei casi):

  • Un sito didattico che ospita una pagina di recensioni di prestiti con anticipo sullo stipendio scritte da una terza parte che distribuisce la stessa pagina su altri siti del web, con lo scopo principale di manipolare i ranking di ricerca.
  • Un sito di medicina che ospita una pagina di terze parti sui “migliori casinò” progettata principalmente per manipolare i ranking di ricerca, con un coinvolgimento minimo o nullo del sito di medicina.
  • Un sito di recensioni di film che ospita pagine di terze parti su argomenti che potrebbero confondere gli utenti (ad esempio “modi per acquistare follower sui siti di social media”, i “migliori siti di chiromanzia” e i “migliori servizi di scrittura di saggi”), il cui scopo è manipolare i ranking nei risultati di ricerca.
  • Un sito di sport che ospita una pagina scritta da una terza parte su “recensioni di integratori per l’allenamento”, in cui il personale editoriale del sito di sport ha un coinvolgimento minimo o nullo nei contenuti e lo scopo principale di ospitare la pagina è manipolare i ranking di ricerca.
  • Un sito di notizie che ospita coupon forniti da una terza parte con una supervisione o un coinvolgimento minimi o nulli da parte del sito di hosting, il cui scopo principale è manipolare i ranking di ricerca.

Per evitare penalizzazioni, i siti che ospitano pagine che violano queste norme devono escludere questi contenuti di terze parti dall’indicizzazione della Ricerca con i metodi noti, come noindex o regole del file robots.txt per bloccare i file.

Non sono invece considerati abuso della reputazione del sito esempi quali:

  • Siti di agenzie di stampa o di comunicati stampa.
  • Pubblicazioni di notizie che hanno distribuito in syndication contenuti di altre pubblicazioni di notizie.
  • Siti progettati per consentire i contenuti generati dagli utenti, ad esempio un sito web di forum o sezioni di commenti.
  • Rubriche, pezzi di opinione, articoli e altre opere di natura editoriale che prevedono uno stretto coinvolgimento o una revisione del sito ospitante.
  • Contenuti di terze parti (ad esempio pagine di tipo “advertorial” o “pubblicità nativa”) prodotti con uno stretto coinvolgimento del sito host il cui scopo è condividere contenuti direttamente con i lettori (ad esempio, tramite promozioni all’interno della pubblicazione stessa), anziché ospitare i contenuti per manipolare i ranking di ricerca.
  • Incorporamento di unità pubblicitarie di terze parti tramite una pagina o utilizzo di link di affiliazione tramite una pagina, con link usati in modo appropriato.
  • Coupon che vengono elencati con lo stretto coinvolgimento del sito di hosting.

Perché Google sta davvero intervenendo sul site reputation abuse?

Con l’ulteriore stretta sulle pratiche di site reputation abuse, Google ha chiaramente riconosciuto l’importanza di preservare l’integrità delle SERP, affrontando il problema del cosiddetto “abuso della fiducia”.

Questa fiducia, che il motore di ricerca stesso aveva accordato in larga misura ai principali brand, ha portato negli anni a distorcere il panorama del ranking, privilegiando siti che beneficiavano in modo eccessivo della loro autorità, anche laddove i contenuti non risultavano coerenti o non rispondevano agli intenti di ricerca degli utenti. Il confronto emerso dalla comunità SEO enfatizza sia il lato positivo di queste restrizioni, sia i numerosi aspetti critici che rendono la policy non solo severa, ma a tratti ambigua.

L’abuso della fiducia e la necessità di maggior controllo

Google si è trovato costretto a intervenire drasticamente di fronte alla crescente manipolazione delle SERP e all’abuso del concetto di fiducia che caratterizza il rapporto tra i grandi brand e il motore di ricerca. Con l’introduzione progressiva di segnali relativi a esperienza, competenza, autorevolezza e affidabilità (EEAT), Google ha cercato di spostare il baricentro dell’algoritmo verso risultati di qualità e autorità. Tuttavia, il processo ha creato delle storture.

Il problema centrale, che l’intervento sull’abuso della reputazione del sito sembra tentare di correggere, è il fatto che molti domini autorevoli abbiano iniziato ad approfittare di questa fiducia cieca. Soprattutto negli ultimi tempi, Google premia in modo quasi automatico qualsiasi contenuto pubblicato su questi siti, senza distinguere in modo approfondito la qualità o la reale rilevanza per l’utente finale. Questa situazione ha portato all’abuso del trust: contenuti di scarso valore, spesso pubblicati da terze parti per motivi puramente commerciali, ottenevano comunque eccellenti posizionamenti grazie all’autorità del dominio.

Con questo giro di vite Google ha dunque rafforzato il concetto di controllo editoriale: non sarà più sufficiente che i brand giustifichino la pubblicazione di contenuti esterni tramite partnership o supervisione leggera. Ogni contenuto dovrà essere genuinamente utile e pertinente al core business del sito, per evitare di compromettere l’esperienza dell’utente e la credibilità dei risultati di ricerca. Il messaggio è chiaro: riportare ordine nelle SERP affinché vi siano contenuti che effettivamente rispondano alle preferenze degli utenti.

Il punto di vista critico: la rigidità della policy e la percezione di ingiustizia

Nonostante le presumibili buone intenzioni con cui Google ha introdotto il site reputation abuse, le critiche da parte della comunità SEO non sono mancate. Alcuni esperti hanno sottolineato come la rigida applicazione di queste nuove regole, specialmente a partire dal novembre 2024, rischi di penalizzare anche collaborazioni legittime tra siti e fornitori esterni che producono contenuti di valore.

Tra i principali critici, Lars Lofgren si è distinto per la sua aperta polemica contro l’approccio di Google. Lofgren ha descritto la policy come “colossale stupidità”, sostenendo che il vero problema non dovrebbe essere chi realizza i contenuti, ma se quei contenuti siano utili o meno. Secondo Lofgren, molti brand collaborano con agenzie esterne per produrre contenuti di qualità in linea con le loro linee guida editoriali. Tuttavia, la definizione approssimativa della norma potrebbe colpire in modo indiscriminato partner legittimi, che semplicemente gestiscono blog o sezioni di siti per conto di grandi aziende.

L’elemento critico centrale, dunque, è l’ambiguità nelle definizioni e nelle applicazioni della policy: la rigida distinzione tra contenuto interno e contenuto esternalizzato non tiene conto delle numerose zone grigie che caratterizzano il panorama SEO moderno. Lofgren e altri commentatori hanno sollevato il dubbio che Google non stia intervenendo davvero per garantire maggiore trasparenza, ma per proteggere il proprio monopolio sul sistema di ranking. Questo approccio potrebbe danneggiare anche collaborazioni legittime tra siti e agenzie, che non abusano della fiducia dell’algoritmo, ma sono destinate comunque a essere penalizzate.

Un ulteriore punto sollevato dai critici riguarda il vento di rigidità che permea la policy. Secondo molti SEO specialist, Google dovrebbe trovare un terreno più flessibile che permetta di distinguere tra manipolazione consapevole e partnership legittima, senza colpire tutto con la stessa intensità. L’attuale sistema di penalizzazioni legato al site reputation abuse rischia infatti di soffocare anche pratiche oneste e collaborative, che possono arricchire l’esperienza dell’utente senza compromettere l’integrità della SERP .

Le zone grigie delle collaborazioni e la necessaria flessibilità

Alla luce dei numerosi feedback raccolti dalla comunità SEO, alcuni esperti hanno suggerito che Google potrebbe promuovere una maggiore flessibilità nell’applicazione della policy sull’abuso della reputazione del sito. Se è vero che le intenzioni di fondo sono lodevoli – contrastare l’abuso della trust authority conferita ai grandi brand – rimane il fatto che l’attuale normativa non fa una distinzione nitida tra partnership legittime e manipolazione consapevole delle SERP.

Spesso accade che i brand di rilievo collaborino con agenzie esterne o gruppi specializzati nella gestione di contenuti, affidando loro il mantenimento di blog aziendali o sezioni specifiche del sito. Questo genere di partnership editoriali, che dovrebbe ritenersi legittimo e non manipolatorio, rischia di essere colpito ingiustamente dalle penalizzazioni di Google. Attualmente, la norma tende a trattare qualunque elemento esterno come un potenziale abuso, trascurando la rilevanza reale dei contenuti per l’utente finale.

Una possibile via da percorrere sarebbe l’introduzione di un sistema di valutazione che tenga conto dei diversi livelli di supervisione: Google potrebbe distinguere tra contenuti prodotti da partner editoriali consolidati e contenuti visibilmente pensati per manipolare le SERP. In altre parole, una revisione mirata della policy potrebbe permettere ai siti di beneficiare di collaborazioni virtuose, senza subire penalità indiscriminate.

L’attuale rigidità della policy, priva di margini di flessibilità, può infatti portare a errori di valutazione che danneggiano non solo siti che abusano effettivamente dei meccanismi di ranking, ma anche quei siti che stanno semplicemente beneficiando di collaborazioni trasparenti. A questo proposito, molti esperti suggeriscono che una riforma della norma possa essere il passo successivo per evitare ulteriori ingiustizie e garantire una regolamentazione più equilibrata, in grado di proteggere l’integrità delle SERP senza sacrificare la legittimità degli accordi editoriali tra brand e partner esterni.

Site reputation abuse: un tentativo di riequilibrare il sistema?

Il site reputation abuse introdotto da Google non va analizzato soltanto come un semplice intervento antispam, ma riflette una problematica più ampia che affonda le radici nell’asimmetria di fiducia che il motore di ricerca ha costruito negli anni verso pochi grandi brand.

Questi siti, che ormai dominano buona parte delle SERP, sono diventati destinatari di un trattamento preferenziale che ha letteralmente congelato la concorrenza. È quello che abbiamo descritto in questi parlando della SEO moderna e introducendo strumenti come il Traffic Share, che rende evidente come nicchie di mercato ampie e ben strutturate vedano sempre gli stessi brand consolidati ai vertici, spesso per lunghissimi periodi, a prescindere dalla qualità o coerenza dei contenuti pubblicati.

La fiducia cieca nei grandi brand e le SERP congelate

Con il tempo, Google ha finito per impigrirsi e, distratto anche da altri fattori (sviluppo AI, competitor emergenti, battaglie legali eccetera) ha sostanzialmente bloccato le SERP, come detto: l’algoritmo del motore di ricerca si è basato prioritariamente sull’autorevolezza del brand ai fini del ranking, concedendo di conseguenza un’eccessiva fiducia automatica ai marchi consolidati e favorendo i loro contenuti nelle SERP a prescindere dalla reale qualità o pertinenza rispetto all’intento di ricerca degli utenti.

Questo processo, nato con l’obiettivo di garantire autorità e affidabilità nei risultati, ha quindi prodotto un meccanismo squilibrato, che ha “congelato” le prime posizioni di molte nicchie di mercato, rendendo difficile per siti emergenti conquistare spazi di visibilità nonostante i propri contenuti di valore.

Lo abbiamo potuto verificare concretamente: le nostre indagini hanno rivelato una dinamica inquietante in cui fino all’85% del traffico organico è distribuito tra soli tre o quattro grandi player, lasciando le briciole residue per tutti gli altri. L’analisi dettagliata sulle keyword utilizza strumenti che ci permettono di identificare con precisione come i domini principali si spartiscano questa enorme fetta di traffico. Il nostro studio, culminato con i dati relativi al 45,46% (percentuale media di traffico che una pagina ottiene quando si trova prima nella classifica Google per un intero cluster di keyword), ha evidenziato ulteriormente queste anomalie: i brand consolidati non solo ottengono apparenti vantaggi derivanti dal loro status di fiducia, ma riescono ad estendere tale predominio anche su keyword di nicchia, a volte non direttamente correlate al loro core business.

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Per far capire cosa significa concretamente, basti pensare a come gran parte delle ricerche su argomenti come il turismo o la cucina vengano dominate sempre da un ristretto numero di siti. Booking, Tripadvisor, ma anche portali come GialloZafferano o Cucchiaio d’Argento sono costantemente ai vertici, pur non offrendo necessariamente il miglior contenuto disponibile su alcuni argomenti circoscritti. Questo accade perché Google continua a premiare ciecamente il brand più famoso, affidandosi alla sua autorità complessiva, anche se determinate pagine o sezioni non riescono davvero a soddisfare le esigenze di ricerca degli utenti.

Gli effetti della norma: correzione tardiva o riequilibrio del sistema?

L’aggiornamento sul site reputation abuse arriva quindi come una correzione tardiva, ma non priva di meriti. Google sembra aver chiaramente riconosciuto i rischi connessi a un meccanismo che lasciava troppa libertà ai grandi brand, soprattutto nelle situazioni in cui contenuti estranei all’ambito principale del sito venivano premiati esclusivamente per la loro collocazione sotto un dominio autorevole. La stretta è quindi volta a restituire un equilibrio alle SERP, cercando di frenare quei comportamenti parassitari che sfruttano l’autorità per manipolare il ranking.

Sebbene necessaria, questa mossa viene però percepita da molti come una toppa su un sistema già inclinato irrimediabilmente: la rimozione della parasite SEO è sicuramente un buon passo avanti nella lotta agli abusi del ranking, ma è sufficiente per porre fine alla distorsione delle SERP? Il problema, come già accennato, non risiede solo nei contenuti esterni o non correlati, ma nella fissità stessa del ranking, che sostanzialmente blocca la competizione tra contenuti di valore e contenti mediocri ospitati sui grandi domini.

Il malcontento verso la qualità dei risultati attuali di Google, spesso ritenuti scarsamente pertinenti, sta spingendo alcuni a sperare che le nuove tecnologie basate su intelligenza artificiale offrano risultati migliori, con risposte più precise e dinamiche, capaci di rispondere in modo più coerente agli intenti di ricerca dell’utente. Mentre Google si impegna nel correggere i problemi del passato, sarà interessante vedere se riuscirà a contrastare l’ascesa di nuovi motori o dovrà adattarsi radicalmente per non perder terreno rispetto ai competitor basati su AI, come SearchGPT.

Per tutti noi che utilizziamo SEOZoom e per chi si affida costantemente ai nostri strumenti analitici sarà essenziale monitorare l’impatto che queste policy avranno sulle SERP nei prossimi mesi. Traffic Share, in particolare, rimane uno strumento indispensabile per capire dove esistono effettive opportunità di scalare le classifiche, approfittando di eventuali buchi creati dalle nuove regole. Tuttavia, resta da vedere quanto spazio sarà effettivamente liberato per chi finora ha lottato per emergere in SERP congestionate dalla predominanza di pochi.

Le “correzioni tardive” di Google non devono quindi farci abbassare la guardia: se l’obiettivo è guadagnare visibilità in un panorama sempre più minacciato dall’autorità di grandi player, sarà imperativo sfruttare al meglio tutte le opportunità data-driven, non solo per inseguire un posizionamento generico, ma per conquistare interi cluster di keyword. L’analisi dei dati offerti da SEOZoom rimane il cuore della strategia SEO ottimizzata ed è proprio con un approccio integrato e continuo che si potrà capitalizzare sulle potenziali aperture meritocratiche di questa nuova era (?) di Google.

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