Aprire Google, lanciare una query, dare un’occhiata alla SERP, cliccare un risultato e poi, insoddisfatti delle informazioni trovate nella pagina di destinazione, tornare rapidamente indietro alla pagina dei risultati e scegliere un secondo risultato, ed eventualmente ripetere il processo. Quello che abbiamo descritto può verificarsi frequentemente quando usiamo Google, ma forse non sappiamo che questo fenomeno di saltellare avanti e indietro tra i risultati ha un nome, ovvero pogo sticking, e può essere un problema SEO in quanto sintomo di contenuto poco interessante e poco a fuoco sul tema ricercato dagli utenti.
Che cos’è il pogo sticking
Nella cultura anglosassone, il pogo stick è il classico trampolino a molla che faceva divertire i ragazzini nei decenni passati, e il suo tradizionale funzionamento a rimbalzo ha portato al battesimo di questo fenomeno SEO.
Il Pogo Sticking è infatti il comportamento di un utente che saltella tra un sito e un altro posizionato in SERP fino a quando non trova il contenuto effettivamente desiderato, navigando rapidamente avanti e indietro tra le pagine dei risultati di ricerca di Google. Secondo alcune teorie, il pogo sticking si verifica quando l’utente torna indietro ai risultati di ricerca entro i primi cinque secondi dalla visualizzazione della pagina.
In termini SEO, il pogo sticking è sintomo di una pagina di un sito ben posizionata su Google, ma che genera traffico di scarsa qualità ed è vista come poco utile dagli utenti. In pratica, il tipo di comportamento saltellante degli utenti è il risultato diretto dell’insoddisfazione immediata nei risultati della ricerca, e quindi il pogo sticking è sempre una cattiva notizia per il sito che lo vive, ma anche per Google stesso (che infatti utilizza la search journey per migliorare la qualità delle risposte fornite).
L’attenzione degli utenti e dei lettori è una merce preziosa online, e in effetti uno dei nostri obiettivi primari è catturarla e mantenerla; per farlo, dobbiamo innanzitutto comprendere in che modo le persone interagiscono esattamente con i contenuti che proponiamo online, e l’analisi di questo fenomeno può fornirci qualche utile insights per orientare le nostre strategie verso risorse più interessanti e coinvolgenti.
Comprendere il pogo sticking, il saltellamento tra SERP e risultati
Nel mondo reale, un esempio di pogo sticking potrebbe essere quello di un cliente che entra in un negozio, dà un’occhiata veloce e poi esce perché non trova quello che cerca. Il negozio potrebbe avere un’ampia varietà di prodotti, ma se non riesce a soddisfare le sue esigenze immediate, quella singola persona se ne andrà, probabilmente per non tornare più. Allo stesso modo, un sito web deve essere in grado di soddisfare rapidamente le esigenze dell’utente, altrimenti rischia di perdere l’occasione che aveva avuto e (potenzialmente) di perdere progressivamente visibilità su Google.
Tornando all’online, ci sono diversi motivi per cui gli utenti potrebbero fare pogo sticking: la pagina potrebbe non essere pertinente alla query di ricerca, o peggio potrebbe non essere facile da usare o avere contenuti scritti male, o semplicemente potrebbe essere di scarso interesse per la persona.
Un caso standard di pogo sticking avviene se cerchiamo una ricetta per una torta al cioccolato: clicchiamo sul risultato che ci sembra più “invitante” tra quelli proposti da Google, ma invece di trovare la ricetta, ci imbattiamo in un lungo articolo sulla storia del cioccolato. Delusi, torniamo indietro e proviamo il link successivo, che ci offre ciò che cercavamo. Questo è un esempio di pogo sticking. Il sito originale non ha soddisfatto le nostre aspettative immediate, quindi siamo tornati ai risultati di ricerca per cercare altrove.
Il pogo sticking è quindi un fenomeno che ci riguarda tutti, sia come utenti che come professionisti del marketing: comprendere come funziona e come evitarlo può fare la differenza tra un sito web di successo e uno che si perde nella vastità del web, perché nel mondo digital la soddisfazione dell’utente è una delle chiavi e delle leve per il successo.
La differenza tra pogo sticking e bounce rate
A prima vista, il pogo sticking sembrerebbe somigliare al bounce rate, ma in realtà ci sono differenze sostanziali.
Come sappiamo, la frequenza di rimbalzo rappresenta “la percentuale di visitatori che visita una singola pagina su un sito web” e poi conclude la sua interazione con quel sito: il suo valore ideale dipende dalla tipologia di sito e non sempre un bounce rate elevato è negativo, in quanto può significare anche che il visitatore ha completato la sua journey ottenendo piena risposta alla domanda e al bisogno che muovevano il suo interesse online, senza necessità di andare più in profondità nel sito.
Al contrario, il pogo sticking è sempre negativo, perché è sintomo di una insoddisfazione dell’utente nei confronti dei risultati forniti da Google e, più precisamente, della loro corrispondenza alla sua domanda iniziale, la query che ha lanciato sul motore di ricerca.
La differenza quindi sta nel fatto che analizzando il bounce rate scopriamo quanti utenti arrivano al sito web, trascorrono un po’ di tempo sulla pagina, non si spostano su altre pagine del sito e se ne vanno, non necessariamente perché insoddisfatti del contenuto trovato; invece, gli utenti che fanno Pogo Sticking sono apertamente insoddisfatti, non si accontentano e si spostano su un altro sito Web.
Pogo Sticking, un problema per la SEO e non solo
L’espressione “pogo sticking” potrebbe evocare immagini di un gioco infantile, ma in realtà è un concetto molto serio nel mondo del search marketing.
Come detto, si verifica quando un utente effettua una ricerca su Google, clicca su un risultato, ma poi torna rapidamente indietro ai risultati di ricerca perché il contenuto del sito non ha soddisfatto le sue aspettative o esigenze; questo comportamento, ripetuto da molti utenti, può segnalare a Google che quel particolare sito potrebbe non essere rilevante o utile, influenzando negativamente il suo posizionamento nei risultati di ricerca.
Il fenomeno del pogo sticking esprime quindi innanzitutto un fastidio vissuto dagli utenti, ma rappresenta anche un problema per i siti interessati e per gli stessi motori di ricerca.
Dal punto di vista strettamente del sito, e quindi della SEO, suggerisce che i contenuti non rispondono alla query di ricerca che la persona ha digitato e alle informazioni di cui aveva bisogno quando ha trovato quel risultato tra le proposte di Google. In soldoni, il pogo sticking è doppiamente negativo per un sito, che non sfrutta il posizionamento delle sue pagine e arriva a favorire un competitor, il sito sul quale si concluderà poi il viaggio e che presenterà le informazioni utili.
Cambiando prospettiva, l’obiettivo di tutti i motori di ricerca è infatti fornire risultati utili agli utenti, consentendo loro di raggiungere i contenuti che desiderano al primo tentativo: è chiaro, quindi, che un comportamento diffuso di saltellamento tra le SERP e le pagine posizionate può comunicare una generale insoddisfazione delle persone rispetto ai risultati elaborati dagli algoritmi, sintomo di una generale incomprensione della query o di assenza di pertinenza tra la domanda originaria e il contenuto posizionato.
Pogo Sticking e Google: fattore di ranking o no?
Per questo motivo, per Google il pogo sticking è un segnale per certi versi più rilevante rispetto a frequenze di rimbalzo elevate, perché testimonia che quella pagina – che pure è ben posizionata per una determinata query – non sta facendo un buon lavoro nel rispondere alle domande che le persone pongono o che era così brutta che le persone non si sono nemmeno presi la briga di leggerne il contenuto.
Nel tempo, sul tema sono sorte tante teorie SEO, che considerano il pogo sticking come un fattore di ranking in negativo: se una pagina posizionata riceve tanto traffico da persone che però rimbalzano rapidamente indietro alle SERP, gli algoritmi se ne accorgeranno e declasseranno la pagina perché non fornisce un contenuto di qualità e pertinente alla query.
In realtà, Google non ha mai confermato ufficialmente che il pogo sticking sia un segnale di ranking diretto – e, anzi, qualche tempo fa John Mueller negò questa ipotesi, perché “può esserci una moltitudine di ragioni per cui gli utenti possono andare avanti e indietro tra varie pagine e siti Web”, e quindi Google non può determinare il motivo preciso né “punire” dei siti a causa di comportamenti a volte imprevedibili e illogici delle persone. Ad esempio, come ormai capita spesso con i siti editoriali, un contenuto è disponibile solo per gli utenti registrati o abbonati, e quindi l’utente base non può usufruire delle informazioni che pure sarebbero ottimali e deve obbligatoriamente tornare alla SERP.
È comunque evidente che questo fenomeno di rimbalzo tra SERP e risultati posizionati non soddisfacenti non può essere ignorata completamente dagli algoritmi, e la stessa comparsa (e diffusione) negli ultimi anni del box People Also Ask sembra rispondere proprio all’esigenza di perfezionare preventivamente la ricerca delle persone, orientandoli già verso contenuti utili.
Le cause del pogo sticking
Se le nostre pagine sono colpite da questo problema – e, quindi, gli utenti provano insoddisfazione per alcuni nostri contenuti posizionati nelle pagine di ricerca di Google e per ottenere le informazioni desiderate tornano indietro alla pagina principale in pochi secondi – e notiamo uno scarso engagement e un bassissimo tempo di permanenza degli utenti, significa che forse c’è qualcosa da mettere a punto nella nostra strategia SEO.
Di base, i principali problemi che causano il pogo sticking sono contenuti scadenti ed esperienza utente scadente, ma non solo, e l’unico modo per contrastare efficacemente il fenomeno è provare a fornire una risposta significativa che risolva il problema di una persona o risponda alla sua domanda.
Tra i problemi on page legati al contenuto che possono provocare il pogo sticking (e spingere il pubblico a lasciare rapidamente il sito) ci sono:
- Contenuti non pertinenti alla query. Google è abbastanza preciso nel posizionare le pagine rilevanti, ma può capitare che in SERP ci siano pagine che non rispondono pienamente al search intent e quindi non offrono risposte utili ai lettori – un esempio classico è quando si ottimizzano i contenuti sulle vanity keyword, che per definizione attirano traffico poco qualificato e rischiano di non generare interazione con l’utente.
- Contenuti obsoleti o vecchi. Gli utenti preferiscono informazioni fresche e aggiornate: non essere al passo con le tendenze (e magari mostrare articoli con date ormai vecchie) può portare gli utenti ad abbandonare la pagina.
- Corrispondenza con il titolo o la meta description. Se gli snippet di anteprima come il titolo e le meta descrizioni non corrispondono al contenuto, il pubblico potrebbe atterrare sulla pagina ma lasciarla rapidamente in quanto insoddisfatto e negativamente sorpreso.
- Utilizzo di tecniche di clickbait per aumentare i clic. Il clickbaiting è generalmente considerato una bad practice, perché induce gli utenti a fare clic su link che potrebbero non fornire loro informazioni utili, e quindi potrebbe favorire il pogo-sticking.
- Contenuti pieni di spam. Gli utenti non vogliono leggere contenuti pieni di spam e basta uno sguardo rapido alla pagina per convincerli a cliccare sul pulsante di ritorno.
- Linguaggio. Se il contenuto riporta errori nei fatti, nella grammatica e nell’ortografia, il pubblico uscirà rapidamente dalla pagina.
- Problemi di leggibilità. I visitatori potrebbero non voler perdere altro tempo nel cercare di leggere contenuti con font troppo piccoli o scarsamente visibili.
Non sono invece legati ai contenuti, ma a problemi di altra natura i seguenti fattori che pure possono influenzare negativamente il comportamento dell’utente e farlo saltellare:
- Eccesso di annunci fastidiosi. La presenza eccessiva di pop-up o interstitial può infastidire l’utente, che quindi torna subito indietro alla comparsa di questi annunci invadenti.
- Sito non ottimizzato per dispositivi mobili. Per gli utenti da mobile (che ormai sono nettamente la maggioranza), atterrare su una pagina non mobile-friendly è frustrante e spesso questi contenuti non sono effettivamente fruibili.
- Design confuso. Presentare un layout complicato può disincentivare gli utenti a interagire con il sito.
- Caricamento lento della pagina. Lo sappiamo, la velocità è un fattore di ranking e gli utenti si aspettano che una pagina venga caricata in 2 secondi o meno: superato questo tempo, la maggior parte delle persone non attenderà e premerà sul tasto Indietro.
- Redirect frequenti. Impostare molteplici redirect è un grosso difetto per i siti perché può prolungare il tempo di collegamento per gli utenti, e i più impazienti non attenderanno a lungo per vedere dove porterà questa catena.
- Avvio di video in riproduzione automatica. La presenza di un video con riproduzione automatica mette in secondo piano l’obiettivo principale del sito web (o comunque nasconde il contenuto a cui l’utente era interessato e per cui ha cliccato in SERP), e se non c’è possibilità di bloccare o spegnere la riproduzione c’è alta probabilità che le persone non resteranno sulla pagina.
Come evitare il pogo sticking
Pur non essendo un fattore di ranking penalizzante per Google, il pogo sticking è quindi un sintomo della presenza di alcune criticità sulle nostre pagine: per fortuna, non è difficile lavorare per risolvere questo problema e, più in generale, per cercare di trattenere più a lungo gli utenti sul sito, facendoli interagire col contenuto.
Questo sono alcuni dei suggerimenti che possono aiutarci a rendere i contenuti più coinvolgenti e – elemento non trascurabile – che possono anche dare effetti positivi alla SEO, aiutando a posizionare le nostre pagine più in alto nelle SERP.
- Crea un’esperienza utente migliore
È stato dimostrato che gli utenti restano più tempo su un sito web se la loro esperienza nei primi 4 secondi è buona, e alcuni semplici best practices ci consentono di migliorare la user experience. Ad esempio:
- Curare la leggibilità e le dimensioni dei caratteri del testo. Gli utenti non vogliono strizzare gli occhi per leggere il contenuto del tuo sito, soprattutto da mobile, né disperarsi perché il colore del font non contrasta abbastanza con lo sfondo della pagina: se non riescono a leggere il contenuto premeranno subito il pulsante Indietro. Inoltre, la presenza di un font minuscolo fa pensare all’utente che le informazioni non siano importanti.
- Scegliere immagini correlate al contenuto. La gestione ottimale delle immagini permette all’utente di avere un’idea visiva del topic trattato dal contenuto: immagini pertinenti e affidabili convincono a procedere con la parte testuale.
- Curare la formattazione del testo, seguendo delle semplici indicazioni come non eccedere con frasi troppo lunghe, usare la suddivisione in paragrafi, usare elenchi puntati per suddividere blocchi di testo e così via.
- Utilizzare sommari e indici. Presentare immediatamente i contenuti della pagina permette all’utente di dare una sbirciatina alle informazioni presenti, soprattutto se il testo è particolarmente lungo: in questo modo, il lettore non è travolto dai dati e tende a rimanere sul sito invece di tornare alla pagina di ricerca, anche perché ha la possibilità di passare direttamente al contenuto di cui ha bisogno invece di dover scrollare l’intera pagina alla ricerca dell’informazione che sta cercando.
- Centrare l’intento di ricerca
Lo diciamo spesso: il search intent spiega il motivo principale per cui un utente usa Google e sceglie di visitare un determinato sito. Se non offriamo una risposta a questo bisogno, non c’è motivo per cui l’utente resti sulla pagina.
- Aggiornare i contenuti
Gli utenti sanno quando il contenuto di una pagina è vecchio – ci può essere una data ormai superata, informazioni obsolete o un format visivo datato – e questo può essere uno dei fattori che li spinge via verso altri siti. L’aggiornamento e il miglioramento dei contenuti meno recenti può aiutare a evitare il pogo sticking e mostrare all’utente la capacità di restare al passo con le tendenze recenti.
- Curare i collegamenti interni
Una gestione efficace della linking interna è un modo semplice ed efficace per mantenere gli utenti sulla pagina per un tempo più lungo, ma soprattutto per aumentare la loro permanenza sul sito: fornire un percorso verso contenuti di approfondimento utili fa spostare le persone più in profondità nel sito Web e rende quindi meno probabile la loro voglia di tornare su Google.
- Aggiungere FAQ
Un altro sistema che consente di soddisfare l’intento e i bisogni dell’utente all’interno di una sola pagina è aggiungere la risposta a domande frequenti in calce al contenuto: in questo modo, la persona interessata non deve andare su un’altra pagina per cercare le risposte, ma resta sul nostro sito in modo interessato.
- Dimostrare EEAT
L’ultimo aspetto è anche il più complicato, o quanto meno il più “indefinito”: come sappiamo, il paradigma E-E‑A‑T di Google è sinonimo di esperienza, competenza, autorevolezza e affidabilità ed è un parametro fondamentale usato per valutare la qualità dei risultati di ricerca sia dai quality raters che dagli stessi algoritmi. Tradurre in azioni concrete cosa significhi migliorare l’E-A-T non è semplice (ma ci sono alcuni approcci che possiamo tentare), e nel caso di contenuti che ruotano attorno ad argomenti YMYL (Your Money or Your Life), come denaro, salute e sicurezza, i fattori di Experience, Expertise, Authoritativeness, Trustworthiness sono fondamentali per convincere Google, ma anche per conquistare l’attenzione dell’utente.
Crediti immagine in evidenza: fonte Flickr, utente Cindy Shebley, link https://www.flickr.com/photos/25636851@N03/26791938233