Link nofollow e link follow: guida completa agli attributi dei link
Ci sono alcuni dilemmi che da sempre ci attanagliano: è nato prima l’uovo o la gallina? Essere o non essere? E poi, follow o nofollow? Nel nostro lavoro di ottimizzazione del sito probabilmente è quest’ultimo il dubbio che più di tutti ci interessa, e quindi oggi il nostro articolo non cercherà di dare una risposta ai dubbi ontologici di Amleto o al paradosso retorico che sfocia nella cosmogonia, ma si concentrerà in modo più prosaico sulla definizione di link follow e nofollow. Andiamo insomma a scoprire qual è la differenza tra questi due attributi dei collegamenti sulle nostre pagine, che peso hanno per un sito, come li giudica Google e perché la linking rappresenta uno dei temi centrali per ogni attività sul Web, cruciale sia per le operazioni onpage che (forse soprattutto) offpage, e in particolare per la costruzione di un solido profilo backlink.
Link follow e nofollow, cosa sono e cosa significano gli attributi
In termini pratici, il nofollow o no follow (in Rete si trovano entrambe le occorrenze) è un valore assegnato all’attributo rel di un link, che in linguaggio HTML compare con questa stringa <a href=”http://example.com” rel=”nofollow”>Sito Esempio</a>.
Quindi, i link nofollow sono appunto collegamenti a cui è applicato un tag HTML rel=”nofollow”.
L’attributo nofollow dice ai motori di ricerca di ignorare quel link, senza trasmettere il PageRank e, quindi probabilmente, senza incidere sul posizionamento nei motori di ricerca della pagina e del sito che riceve il backlink.
Al contrario, i link dofollow o follow sono collegamenti che trasmettono un voto di fiducia per le informazioni condivise su quella pagina web, che Google considera come fattore di ranking.
Per l’utente/visitatore non cambia nulla, perché il link è sempre cliccabile e porta a una pagina diversa da quella che sta navigando in quel momento. Anzi, l’utente medio del sito Web non può dire se un collegamento è Nofollow o Dofollow, perché si può verificare l’attributo manualmente solo analizzando il codice sorgente della pagina.
Molto però cambia per i siti: è Google a sottolineare che scegliere l’opzione nofollow significa indicare in maniera esplicita ai bot dei motori di ricerca di non seguire il link in questione, che di conseguenza non “ottiene” peso ai fini del posizionamento al link stesso e non riceve autorevolezza (o, almeno, non nella stessa misura di un link dofollow).
Link e attributi, l’importanza per Google
Per capire davvero cosa sono e che senso hanno i link follow e nofollow servono una premessa e un salto nel passato.
Iniziamo col dire che i link ad altre risorse, compresi i collegamenti interni a un sito, sono una delle caratteristiche fondanti di Internet; non a caso si parla di Rete o di Web, ovvero di una struttura correlata, dove ogni filo porta a un altro. Pertanto, l’idea di eliminare completamente i link da ogni sito è assurda, oltre che paradossale, perché darebbe vita a singole entità che hanno vita propria e che, di conseguenza, offrono all’utente solo un contenuto limitato e un’esperienza parziale.
Al contrario, la natura stessa di Internet prevede che quando si fa accenno in una pagina a contenuti trattati su altri siti si inserisca un link utile per l’utente che intende approfondire la materia, così come se si riprende un tema già esposto sul proprio blog si deve rimandare al pezzo in questione con un link interno.
Insomma, suggeriamo al visitatore la possibilità di compiere una scelta, mettendolo nelle condizioni di decidere se dedicare o meno tempo a seguire il collegamento verso una risorsa (si spera) utile, in linea con le informazioni che sta ricercando. È chiaro che quando il collegamento avviene tramite link esterno ci assumiamo una responsabilità verso i crawler di Google e verso l’utente, perché siamo (o dovremmo) essere consapevoli dell’affidabilità della risorsa verso cui reindirizziamo.
La correlazione tra backlink e posizionamento
Oltre a questa importanza di tipo concettuale e strutturale, c’è poi un altro fattore che rende fondamentali i link: tra i vari fattori di ranking impiegati da Google e dagli altri motori di ricerca ci sono proprio questi riferimenti ipertestuali, che praticamente da sempre servono per determinare l’affidabilità e l’autorevolezza di un documento web e, di conseguenza, classificarlo in modo appropriato nelle SERP.
Provando a descrivere in maniera volutamente superficiale il meccanismo, possiamo dire che quando una pagina del sito riceve un collegamento in entrata (ovvero un link ipertestuale che punta a quella pagina, proveniente da un’altra risorsa online) ottiene un piccolo incremento SEO. Banalizzando, ogni collegamento potrebbe rappresentare un punto: quindi, più collegamenti ci sono, più punti abbiamo, e chi ha più punti vince e scala le SERP. Questo punteggio è simile al concetto della link juice, che scorre attraverso i siti e in nuovi siti tramite collegamenti ipertestuali, che però aggiunge un elemento qualitativo: più affidabile è il sito da cui parte il link, maggiore è il potenziamento del juice che ottiene il sito collegato.
Google infatti prende nota di questi punti, osservando quanti link in entrata ha una pagina e da quali siti – facendo un ragionamento del tipo: se molte persone e siti si collegano a quella determinata pagina, deve essere per forza una buona pagina! – e decide quindi di assegnare una preferenza a tale risorsa rispetto ad altre di un argomento simile, proponendola ai primi posti in risposta agli utenti del motore di ricerca.
E qui arriviamo alla questione “link dofollow vs link nofollow“, che affonda le sue radici nel passato e (in pratica) nelle origini della SEO: per molti anni i motori di ricerca hanno basato il giudizio su siti e pagine Web (e di conseguenza il funzionamento dei risultati di ricerca) sul numero di backlink che puntavano ad essa da altri siti web, senza alcun tipo di valutazione del tipo o della qualità di questo riferimento.
Anche il PageRank di Google calcolava la “popolarità” delle pagine web basandosi essenzialmente sul numero di backlink ricevuti da altri siti, che rappresentavano dei “voti” di fiducia e gradimento, anche se attribuiva loro peso differente in base al valore del sito linkante e della sua popolarità.
Ad ogni modo, c’era una stretta correlazione tra numero di backlink ricevuti e posizionamento delle pagine, e di ciò si accorsero rapidamente i professionisti SEO antelitteram, che iniziarono a sperimentare metodi nuovi e vari per manipolare le classifiche attraverso l’acquisizione massiccia di backlink. Erano gli albori delle strategie di search marketing, quando dominavano le cosiddette Link Farm, siti che erano vere e proprie “fattorie” di contenuti e di link, spesso sotto forma di semplici aggregatori e generatori di link.
Tutta la SEO si basava, essenzialmente, sul concetto che bastava accumulare link per scalare le posizioni sui motori di ricerca, e tali collegamenti aiutavano i siti Web di bassa qualità a posizionarsi più in alto rispetto a siti Web di qualità molto più elevata e quindi più meritevoli.
La creazione del rel Nofollow per i link
È proprio per contrastare queste attività manipolatorie e per fermare un afflusso insopportabile di link contenenti spam che arrivavano principalmente tramite commenti di blog, bacheche e forum che, nel 2005, Google compie la sua mossa: in quell’anno viene infatti introdotto il rel=”nofollow” da aggiungere ai collegamenti.
Nelle intenzioni di Google, il nofollow serviva a cercare di filtrare i link dannosi, perché attraverso l’attributo il crawler apprende il contesto di un collegamento e lo utilizza nei suoi sforzi per rendere il posizionamento più equo.
Detto in altri termini, aggiungendo il rel=”Nofollow” a un collegamento ipertestuale presente in una pagina, il webmaster indica che alla pagina di destinazione di quel link non dovrebbe essere concesso alcun peso aggiuntivo o posizionamento da parte degli user agent che eseguono l’analisi dei link sulle pagine Web, ad esempio per conto dei motori di ricerca.
Nell’ottica di Google, i link nofollow sono esclusi dal calcolo del PageRank e dagli algoritmi, perché l’attributo serviva appunto a rimuovere l’esistenza del link per Google e gli altri motori di ricerca, portando all’eliminazione del collegamento dal “link graph”, la mappa di Internet. Quando i crawler si trovano davanti a un link nofollow prendono nota del collegamento, ma non seguono alcun tipo di segnale alle pagine di destinazione né trasferiscono alcun PageRank dal sito link source al sito link target.
Il link resta comunque un collegamento attivo per gli utenti, utilizzabile per raggiungere il sito e mostrato anche in Google Search Console, ad esempio, ma non ha effetti sul ranking, così come l’anchor text di un link nofollow è semplicemente una stringa di parole per Google, esattamente come le restanti parti del contenuto.
L’utilità del rel nofollow allora e oggi
Secondo le indicazioni di Google, i casi d’uso principali per questo attributo erano due, ovvero commenti degli utenti e link a cui l’autore desidera evitare di segnalare un’approvazione completa.
In particolare, dal punto di vista teorico il nofollow andava inizialmente assegnato ai link venduti o acquistati, ma anche a collegamenti specifici (esemplificati nella guida stessa) quali contenuti non attendibili o fuori dal proprio controllo, contenuti generati dagli utenti (esempio più immediato, i link nei commenti, che poi i CMS come WordPress hanno impostato di default come nofollow), link che possono risultare inutili per i crawler di Google (vale a dire pagine di registrazioni o pagine private, che rappresenterebbero solo uno spreco di risorse per i bot).
Il nofollow ha avuto valore di direttiva per Google: vale a dire, i crawler che trovano questo attributo ignorano obbligatoriamente il collegamento in termini SEO (anche se da tempo potevano seguire anche i link nofollow per la scansione). Dal primo marzo 2020, però, Google ha cambiato approccio a questo elemento, modificando il nofollow in un suggerimento per i crawler e, quindi, aggiungendo anche link così marcati al complesso sistema di apprendimento e riconsiderazione delle pagine che contribuisce a determinare la classificazione.
Ciò significa che oggi Google può, a seconda dei casi, scegliere di ignorare il nofollow e seguire il collegamento e/o trasmettere l’autorità di collegamento, e quindi il peso SEO dei link nofollow è un po’ più nebuloso rispetto ad altri elementi, tanto che ancora si dibatte sul fatto che nofollow possa essere o meno un fattore di ranking. Possiamo comunque dire che, con forte probabilità, la maggior parte dei link nofollow non gioverà alle classifiche, ma c’è comunque la possibilità che Google potenzialmente scelga di ignorare il suggerimento dell’attributo nofollow e utilizzare quel link anche per scopi di ranking.
Per aiutare chi gestisce i siti a controllare meglio l’organizzazione dei link ospitati sulle pagine (e distinguere meglio tra le origini dei link non naturali), poi, dal 2019 Google ha aggiunto due attributi aggiuntivi che svolgono una funzione specifica ed etichettano in maniera appropriata i collegamenti: si tratta dei rel=”ugc” e rel=”sponsored”, che in qualche modo completano l’attributo link nofollow.
Riassumendo, quindi, abbiamo 4 possibili attributi dei link, con cui marcare i collegamenti sulle nostre pagine per comunicare specificamente con Google (e per dare un vago senso SEO):
- Rel=”sponsored” per contrassegnare link a pagamento (di qualsiasi tipo) e sponsorizzati.
- Rel=”ugc” per i contenuti generati dagli utenti sui quali non abbiamo necessariamente il controllo, come commenti, bacheche e post del forum.
- Rel=”nofollow” come riferimeno generico ogni volta che non desideriamo approvare completamente un sito (non vogliamo essere associati all’URL di destinazione del link) o se non abbiamo il controllo sul collegamento.
- Rel follow per tutti gli altri casi.
A cosa servono i link dofollow
E quindi, all’esatto opposto della triade che marca i collegamenti non naturali o insicuri c’è il “dofollow” o semplicemente follow, che in realtà non è un attributo “esistente” ma l’impostazione standard per i collegamenti esterni – e difatti nel codice HTML non c’è alcuna stringa speciale che contraddistingue questa tipologia.
In pratica, ogni sito che non ha provveduto a indicare esplicitamente il nofollow ai propri rimandi ipertestuali segnala a robots di Google che i propri link in uscita sono da seguire.
In termini teorici, i link dofollow invitano i crawler di Google a seguire, appunto, il collegamento, perché ritenuto utile sia per l’utente che per i motori di ricerca, ed è quindi chiaro che ricevere per il proprio sito un riferimento di questo tipo rappresenta un’opportunità per rafforzare il posizionamento di un contenuto, perché trasferiscono valore e un feedback di qualità verso il sito linkato.
In una strategia SEO offpage, quindi, bisogna valutare con attenzione la link popularity, pensando non solo (e non più) solo ad accumulare riferimenti da altri siti, ma anche e soprattutto a ricevere link in ingresso che siano di qualità e di attinenza alla risorsa linkata. Anche se, come detto, Google potrebbe prendere in considerazione, seppure in maniera meno rilevante, i link nofollow per la valutazione di un sito, soprattutto se il riferimento esterno proviene da siti web di buon livello e di argomento in topic con quello trattato sulla pagina di destinazione.
Tutti link nofollow in uscita? Nessun beneficio su Google
Per diversi anni, nel modo della SEO si è diffusa la tendenza a taggare tutti i link in uscita con rel = nofollow: alla base di questo approccio c’è la convinzione che il follow disperderebbe la link juice del sito linkante, che quindi vedrebbe peggiorare il suo ranking su Google a beneficio della pagina linkata.
In pratica, il rel nofollow che era stato creato per consentire a gestori di siti e blog di marcare come non attendibili e non degni di fiducia i link presenti nei commenti generati dagli utenti, si è poi esteso a un uso più ampio anche all’interno dei contenuti regolari onpage, fino agli eccessi di siti con tutti i link in uscita impostati in nofollow per presunti vantaggi SEO.
Oggi dovrebbe essere scontato che si tratta di un falso mito e Google ha chiarito ufficialmente che un sito non ha benefici di ranking né di link juice se contrassegna tutti i link in uscita come nofollow.
Ad esempio, nell’appuntamento con (l’allora) Google Webmaster Central office-hours hangout di luglio 2019, John Mueller dichiarò che in nessuna circostanza l’uso di link normali (ovvero, con rel follow di base) può portare peggioramenti al ranking rispetto alla strategia di mettere in nofollow tutti i collegamenti esterni.
Per Google i link dofollow sono importanti
Anzi, secondo il Search Advocate di Google potrebbe essere più plausibile l’ipotesi opposta, ovvero che “se disponi collegamenti normali sulla pagina, probabilmente il tuo sito si classificherà un po’ meglio nel tempo, essenzialmente perché Google può vedere che fai parte del normale ecosistema Web”.
Come dicevamo prima, Google utilizza i collegamenti per creare la Rete Web (termine non casuale) e quindi invita i siti a linkare (ed essere linkati).
Questo significa anche che bisogna sostenere i link inseriti, che ad esempio possono essere parte integrante di un articolo come riferimento a una fonte della notizia, risorsa di approfondimento, autorità del settore o semplicemente a un sito altro da cui trarre maggiori informazioni o differenti punti di vista sul topic. Considerati in questo modo, i link esterni dovrebbero essere sempre messi in dofollow, secondo John Mueller, che anzi chiama questi collegamenti semplicemente “normal links”.
Come e quando usare i rel link nofollow in modo efficace
In linea di massima, dovremmo utilizzare l’attributo nofollow per segnalare a Google di non seguire un link se non abbiamo certezza del suo contenuto o se riteniamo che il collegamento punti a risorse inutili per Googlebot.
Più specificamente, chi possiede o gestisce un sito dovrebbe ricordare che:
- Aggiungere il rel nofollowsignifica dire ai crawler dei motori di ricerca di non seguire il link durante le loro esplorazioni.
- Usare sempre il nofollow va in qualche modo contro i principi del Web.
- Si può impostare il nofollow – laddove non di base – per commenti lasciati dai lettori e altri contenuti “manipolabili”.
- È possibile scegliere questo attributo anche per evitare di trasmettere il “potere” e l’autorevolezza del proprio sito a un altro sito linkato, che però riteniamo utile per il lettore.
- Inoltre, l’attributo andrebbe inserito anche per link di affiliazione, link a pagamento (anche di advertising, sia nel testo che nelle immagini), link a/verso comunicati stampa, link a/verso pubbliredazionali, link verso articoli che hanno attinenza minima di topic con quello della pagina target, e poi ancora link nei widget, link verso contenuti poco affidabili e link verso pagine che contengono solo form.
Come gestire i link in nofollow ricevuti
Quando invece ci troviamo nella situazione opposta, ovvero sono le nostre pagine a ricevere un backlink impostato in nofollow, dobbiamo valutare in modo appropriato la risorsa, ricordando che l’attributo potrebbe comunque avere un peso per influenzare il posizionamento di un sito.
- Un link è comunque un collegamento: detto del minor valore per Google, ricevere un riferimento porta comunque a una diffusione del proprio sito ed, eventualmente, anche a una condivisione più ampia del contenuto attraverso l’utenza.
- Consente comunque di ottenere traffico referral diretto e immediato.
- È un segnale di autorevolezza per il sito, soprattutto se deriva da un sito già forte e riconosciuto. Un caso esemplare è quello di Wikipedia, che per politica ha impostato l’attributo nofollow a tutti i link in uscita (così come YouTube, per citare un altro big): comparire in una menzione dalla nota enciclopedia virtuale, infatti, rappresenta un alto valore non solo simbolico per il proprio sito.